Donne, maghe e guaritrici: femminile e sacro nell'Abruzzo antico - Archeologiaabruzzo dott. Anna Dionisio

Donne, maghe e guaritrici: femminile e sacro nell'Abruzzo antico

Nel variegato pantheon dei popoli italici in via di romanizzazione, e in particolare delle popolazioni sabelliche e sannitiche (quelle, per intenderci, stanziate nel territorio degli attuali Abruzzo e Molise), spicca la presenza di alcune divinità femminili che sembrano rappresentare diverse sfaccettature di un’unica Dea Madre. In molte località, tali dee sono oggetto di un vero e proprio culto istituzionalizzato, sovente praticato da collegi sacerdotali declinati tutti al femminile.

Le fonti storiche ed epigrafiche trasmettono, in relazione ad un periodo che coincide grosso modo con l’età ellenistica (IV-I secolo a.C.), alcuni nomi con una certa frequenza: Mefitis e Vesuna per il Sannio; Anxa/Angitia per la Marsica; e soprattutto Ceres (in sannita Kerri-) e Venus (in sannita e sabellico Herentas), attestata un po’ovunque in Italia peninsulare.

A partire dal III secolo a.C., Cerere viene assimilata con l’ellenica Demeter, e perciò venerata spesso in coppia con la figlia Kore/ Persefone.

 

Probabilmente il culto cererio in Italia ha le sue radici proprio nella venerazione tributata alla Ceres Hennensis, di cui parlano diffusamente le fonti di età romana: Cicerone, nelle orazioni contro Verre, si dilunga nell’osservare come tutta la città di Enna “sembrava un unico luogo di culto consacrato a Cerere  (Verr., 111, 8): tale religiosità, dai forti connotati inferi e demetriaci, si diffuse a partire dalla Sicilia verso la penisola italiana. Anche a Roma la devozione alle due dee, madre e figlia, era molto sentita: al punto che, nonostante esistesse in città un grande tempio ad esse dedicato, per le situazioni di emergenza si inviavano delegazioni a chiedere grazia ad Enna, come testimonia sempre Cicerone.

Qual era il vero volto di queste dee? L’archeologa Adele Campanelli ha già notato più volte la connessione tra tali figure e l’elemento ctonio, insieme agricolo e sotterraneo. Si tratta di immagini in sostanza ambigue, come è ambigua la madre Terra di cui incarnano le caratteristiche: grembo fertile da cui nasce la vita, ma nello stesso tempo luogo della sepoltura e della dissoluzione. Aspetti tra loro connessi, e ben esemplificati nel mito di Proserpina, figlia di Demetra, rapita dal dio degli inferi Ade proprio nei pressi di Enna: secondo il racconto mitico, a Proserpina, giunta negli Inferi, fu offerto un melograno, frutto emblematico, simbolo di fertilità. La vita si rinnova nel dualismo delle stagioni, nel doppio volto di Bona dea, divinità benigna e protettrice, e Magna Mater, sinistra e minacciosa. Lo stesso dualismo che ritroviamo in Angitia, divinità venerata a Luco dei Marsi (AQ), signora dei serpenti di cui era in grado di neutralizzare il morso, e che una tradizione trasmessa da Servio considera sorella di Circe e Medea: una possibile eco del mito sopravvive, forse, nel comune di Cocullo (AQ), sito ai margini della valle peligna lungo una direttrice che vide fino al XIX secolo un’intensa mobilità di persone dirette verso la Marsica e il Fucino; a Cocullo, all’inizio del mese di maggio, si tiene ancora ogni anno la “processione” della statua di San Domenico ricoperta da serpenti vivi, affinché il santo scongiuri il pericolo di avvelenamento. La sovrapposizione è abbastanza evidente.     

Non a caso Angitia è anche dea della divinazione e della negromanzia, e le sue adepte erano chiaroveggenti e in grado di evocare gli spiriti dei morti affinché svelassero il futuro.   

 

In Abruzzo abbiamo prova dell’esistenza, in età antica, di una complessa religiosità che prende le mosse da tali figure divine, incarnazione del femminile, della natura e del potere generativo, e che sembra essere praticata esclusivamente da donne. Iscrizioni e rilievi, soprattutto a carattere sacro o funerario, ci trasmettono informazioni preziose: a Rapino (CH) una tavoletta in bronzo oggi dispersa, con iscrizione in latino arcaico, sembra riguardare una legge sacra, in cui alcuni studiosi hanno ravvisato un indizio della pratica della prostituzione nel santuario di una divinità femminile (dell’istituto della cosiddetta “ierodulia”, o prostituzione sacra, sembra esserci una testimonianza tarda del greco Atenodoro, riportata da Porfirio), datata attorno al III secolo a.C.

Ad Agnone (IS), nel II secolo a.C., viene stilata un’altra legge sacra, la cosiddetta “Tavola di Agnone”, che prescrive i riti da compiere in onore di un gran numero di divinità, molte delle quali sono Kerriai, divinità di stampo cererio legate agli elementi naturali; è possibile comprendere che i riti venivano svolti all’interno di uno spazio sacro recintato.

Ma è dal territorio peligno che proviene un’eccezionale quantità di attestazioni, materiali ed epigrafiche, riguardanti non solo le dee ma anche le sacerdotesse dedite al loro culto. Il santuario di Sant’Ippolito a Corfinio (AQ) ha come divinità principale Ercole, ma vi sono stati rinvenuti statuette e teste femminili in terracotta, oggetti legati al mondo femminile (come gli unguentari) deposti in qualità di ex voto, e vere e proprie statue di culto, di cui una, mutila e con corona turrita, potrebbe rappresentare l’avvenuto sincretismo della Cerere italica con Cibele, la dea sotterranea proveniente dalla Frigia, cui era dedicato un culto misterico. Inoltre, il rinvenimento di un frutto di terracotta, sicuramente da identificare con una mela cotogna (Cydonia oblonga), mette in relazione il santuario di Corfinio con luoghi in cui sono stati rinvenuti frutti analoghi, in Etruria (Spina, Gravisca, Tarquinia) e nel mondo grecizzato (il tempio della Malophoros di Selinunte): nella totalità dei casi la cotogna è connessa al culto delle divinità femminili infere.

 

Le sacerdotesse preposte al culto delle dee sembrano non discostarsi dalle caratteristiche che le fonti trasmettono per i collegi femminili del mondo romanizzato o in via di romanizzazione. Diverse iscrizioni funerarie in lingua peligna, rinvenute a Corfinio, Sulmona e dintorni, recano la sintetica dicitura “anaceta cerria”,  che la maggior parte degli studiosi oggi concorda nel tradurre come “sacerdos Cereris”: formula tra l’altro attestata anche in iscrizioni successive in latino, nella stessa zona, in cui a volte il sacerdozio di Cerere si accompagna a quello dedicato a Venere. Solo in alcuni casi è riportato il nome delle sacerdotesse sepolte: una Saluta Scaifia, una Tettia, una Vibea Metia, esponenti delle più importanti famiglie dei grandi centri urbani. Un rilievo tombale di età romana recita: Helvia Pothine, sacerdos Cereris, con l’eloquente immagine della proprietaria in atto di sacrificare una scrofa (secondo il poeta sulmonese Ovidio, la dea “godeva del sangue” delle scrofe gravide). 

Un’eccezione a questa generale sobrietà delle testimonianze sembra offerta da un plinto (lapide bassa e quadrangolare) funerario proveniente dalla più estesa delle necropoli di Corfinio, quella che circonda la via che porta a Pratola Peligna, rinvenuto a fine ‘800 da Antonio De Nino, il pioniere delle ricerche in zona. Esso si data alla metà del I secolo a.C. e reca un carme funerario assai esteso, solo in parte comprensibile, in lingua peligna. La proprietaria della tomba, tale Prima Petiedia, sacerdotessa di Cerere e di Herentas- Venere, viene detta, secondo l’interpretazione di Emilio Peruzzi, “ritualmente vedova”: anche le fonti di età romana, del resto, ci testimoniano che le sacerdotesse di Cerere non potevano avere nessun contatto con uomini nel periodo del loro servizio sacro, e pertanto dovevano divorziare temporaneamente dai mariti. Nel periodo del servizio pertanto la donna torna ad essere Vibidia, il nome della famiglia paterna. Il suo alto rango sociale si accompagna ad un ruolo cardine all’interno del collegio di appartenenza: oltre ad essere sacaracirix, termine generico traducibile come “sacerdotessa”, è anche pristafalacirix, probabilmente “capo delle sacerdotesse”. L’iscrizione è dunque prova dell’esistenza di una gerarchia interna ben definita e di prescrizioni rituali minuziose.

La menzione nell’iscrizione di Perseponas, Persefone, rafforza l’idea che la coppia della dea con Demetra sia venerata a Corfinio, probabilmente con una ritualità di stampo misterico; anche a Cansano (AQ), località nei pressi di Sulmona, in cui è stato individuato un complesso sacro dedicato a più divinità, sono state rinvenute attestazioni di questo culto, tra cui un symplegma (gruppo) fittile raffigurante l’abbraccio tra le due dee.

Tale aspetto, cui probabilmente si collegano influenze dell’orfismo dionisiaco proveniente dal Vicino Oriente, necessita ancora di studi approfonditi. In questo senso si potrebbe interpretare la formularità dell’iscrizione di Prima Petiedia, che ha punti di contatto con quella delle cosiddette “lamine orfiche” della Magna Grecia e di un esemplare rinvenuto a Roma; e un votivo a forma di lira miniaturistica rinvenuto nel santuario di Sant’Ippolito. 

Per saperne di più: PDF del mio articolo su Archeologia Classica 2013 (vd. sezione Articoli e Contributi).

 

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