Il mestiere di epigrafista nell'Italia preromana

Oggi dedicheremo un piccolo spazio ad un tema insolito. Normalmente, la scrittura su supporto durevole (pietra, bronzo) nell'antichità è un argomento poco o niente affrontato nei corsi universitari, e di cui il turista/appassionato medio non sa nulla. In questo sito, per tale motivo, ho parlato spesso delle testimonianze epigrafiche che ci provengono dall'Abruzzo preromano.

Ma se esistono delle iscrizioni, vuol dire che "qualcuno", migliaia di anni fa, si sarà preoccupato di inciderle e scolpirle. Chi sono questi artigiani-artisti? Come facevano a procurarsi i materiali e con quale tecnica li scolpivano?

Mi riferisco a tutto il periodo che va dalla comparsa della scrittura presso le civiltà italiche  -dunque dall’VIII sec. - al II secolo a. C. , quando, dopo le guerre sannitiche, l’Italia (o meglio, la parte di essa che possedeva una consapevolezza della propria unità etnica) si trovò sotto il diretto influsso di Roma. Le società presenti sul territorio italico seguono per lo più uno sviluppo socio-politico parallelo a quello romano.  

Le uniche informazioni di cui disponiamo provengono dall’analisi delle iscrizioni stesse e dei loro contesti archeologici (senza contare che, molto spesso, esse sono del tutto decontestualizzate): soprattutto per quanto riguarda i secoli dall’VIII al V, abbiamo a che fare con un corpus molto scarno, di poche decine di testi, ed è possibile ricavare solo in modo limitato notizie su quali strumenti e come sono stati utilizzati per incidere le iscrizioni sulla pietra e sul metallo e per graffirle sulla ceramica.             

Abbiamo notizie assai scarne, nonché indirette, su come avvenissero l’estrazione della pietra, il  reperimento dell’argilla e quali fossero le tecniche di individuazione e coltivazione dei filoni metalliferi. Mancano nelle fonti i riferimenti alle cave ed alla loro gestione per tutto il periodo precedente l’impero romano. 

1. Statue in pietra. La pietra utilizzata era per lo più calcare locale e non si usava, se non raramente, marmo di importazione; gli strumenti utilizzati all’interno delle cave dovevano essere più rudimentali di quelli che conosciamo per il mondo romano. Certamente dovevano esistere seghe e forse cunei per il distacco dei blocchi dalla roccia madre. In sede di officina, a quanto pare, la lavorazione dei manufatti litici doveva prevedere la sbozzatura e scalpellatura; i fori erano fatti a succhiello (lo prova la loro profondità e la forma a cono) e i monumenti più importanti erano levigati accuratamente, forse con lime o sostanze abrasive (sabbia: Di Stefano Manzella 1987, pp. 55-56). Le statue arcaiche di grandi dimensioni sono spesso coperte di colore rosso (rubricatura) di origine naturale, di cui abbiamo ancora tracce.

2. Vasellame. La lavorazione dell’argilla e la sua trasformazione in ceramica, influenzata dall’esperienza greca, si trovava –già dal VII-VI secolo a.C.- in uno stadio piuttosto evoluto. I vasi che abbiamo sono fabbricati a tornio; esistono svariati impasti, adatti a diversi scopi (il refrattario da fuoco, le ceramiche depurate e raffinate che poi sono quelle più spesso iscritte) e le decorazioni dimostrano una certa perizia dell’artigiano, anche se forse non l’uso di strumenti come il compasso  Penso in particolare alla pisside Sp TE.4 da Campovalano. Anche gli esemplari non iscritti contemporanei hanno all’incirca le stesse caratteristiche, con la ripetizione di motivi decorativi curvilinei –più o meno complessi- sul corpo del vaso e forme abbastanza articolate ed elaborate. Gli esempi antecedenti, ovviamente, sono di qualità molto più approssimativa (le brocchette di Poggio Sommavilla in Sabina ed Osteria dell’Osa in Lazio, ad esempio), mentre in ambito magno-greco ed etrusco le testimonianze sono già di una certa rilevanza dall’VIII secolo: è il caso della “coppa di Nestore” e dell’iscrizione di Hisa Tinnuna da Cuma.

3. Metalli. Rari sono i reperti iscritti metallici, per lo più in bronzo, e di epoca più tarda (III secolo a.C.). Gli elaborati kardiophylakes, nonostante il loro valore di simbolo del potere, non saranno mai iscritti. 

A Roma abbiamo esempi non molto più tardi di elaborate produzioni, per lo più in bronzo, ma anche in metallo prezioso (la “fibula Praenestina”).

In seguito (III secolo a.C. e segg.) la produzione epigrafica su oggetti metallici aumenterà di volume e di importanza un po’ ovunque (La Regina 1978, p. 521), e particolarmente in ambito sacrale.

 

Che lo scultore sia identificabile con lo scrittore, in quest’epoca, è plausibile: neanche la società romana conosce la divisione del lavoro come la intendiamo noi, dunque è probabile che, nelle società dell’Italia arcaica (e un po’ in tutte quelle del mondo antico), l’artigiano fosse in grado di operare sul blocco di pietra trasformandolo in prodotto finito, completo di iscrizione. Per quanto riguarda invece la ceramica, la divisione esistente già in epoca molto antica in Grecia tra ceramista e ceramografo -ed il fatto che l’Italia, per mediazione etrusca, dovette conoscere molto presto l’arrivo di prodotti ed artisti greci, adottandone tecniche e repertori figurativi- autorizza a pensare che le due figure professionali fossero ben distinte.         

L’impressione che deriva dall’osservazione dei più antichi esempi di iscrizioni (VIII-V sec. a. C.) romane, etrusche ed italiche è di una scrittura ottenuta con le tecniche più semplici e rudimentali: su supporti litici, la totalità delle iscrizioni è incisa a solchi semplici, a scalpello; su ceramica a graffito dopo la cottura. Attenzione particolare meritano i punti, profondamente incisi a succhiello. 

L’andamento delle parole non ha neppure un senso definito. Esso si adatta alla forma dell’oggetto, per lo più attraverso la tecnica del boustrophedon; solo le parti scolpite o disegnate a rilievo non sono ricoperte dall’epigrafe, dimostrando forse la loro preminenza su di essa.

 

Doveva esistere, invece, almeno per i monumenti pubblici più importanti di età repubblicana (a partire dal V secolo a.C.), ciò che per l’età classica viene definito minuta epigrafica: una sorta di “brutta copia”, che conteneva il testo ed era fornita dal committente. È’ un’ipotesi che siamo costretti a formulare, data la lunghezza e complessità di alcuni testi.   

A partire dal IV-III secolo compaiono anche oggetti in bronzo iscritti. Il metallo come supporto scrittorio diviene probabilmente usuale: ne possediamo diversi esemplari, il che significa- dato che il metallo è in assoluto il materiale che meno si conserva, a causa del continuo riutilizzo- che doveva essere molto comune.  Ricordiamo il bracciale di Pescosansonesco (CH.2), databile tra il V ed il IV secolo a.C., la lamina del cinturone di Caso Cantovio da Angitia (Luco dei Marsi), i due elmi iscritti da Canosa e Bologna (BA.1 e BO.1) di pieno III secolo; successivamente, le tavole di Agnone e di Rapino, di II secolo, per poi terminare con le monete, delle varie città e della guerra sociale (fino all’82 a.C.). 

        Non abbiamo, ovviamente, fonti dirette che possano illuminarci sul problema di come e quanto lo scultore-epigrafista godesse di considerazione in seno alla comunità preromana di appartenenza. Possiamo, comunque, elaborare delle ipotesi, a partire dal materiale iscritto che abbiamo, dai contesti e da raffronti con quanto effettivamente conosciamo dell’organizzazione delle società protostoriche precedenti la conquista romana.

L’artigiano doveva avere padronanza della sua tecnica –scultorea, ceramica o metallurgica che fosse- ma è quasi certo che sapesse effettivamente scrivere. Non doveva essere, quindi, una specie di “copista” che non era in grado di capire il senso di ciò che scriveva.

Abbiamo una pluralità di nomi di artefici in iscrizioni provenienti da tutta Italia e non solo dalle zone finora esaminate. Se, per un monumento come il “Guerriero di Capestrano”, abbiamo il dubbio che il personaggio menzionato come offerente (Aninis) sia solo il committente, non possiamo pensare lo stesso in casi come quello della “fibula Praenestina” e della “cista Ficoroni”, per quanto riguarda il mondo latino e romano arcaico, e quello dell’iscrizione di Hisa Tinnuna da Cuma per l’ambito etruscofono.

In tutto il mondo antico, prima dell’ascesa di Roma (e della conseguente alfabetizzazione diffusa in tutti gli strati della società), ma anche prima della “democratizzazione” dovuta all’introduzione degli ordinamenti repubblicani, possedere la capacità di scrivere equivaleva a godere di prestigio e di un ruolo sociale elevato e degno di rispetto.

 

 

       

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