CIBO E ALIMENTAZIONE NELL'ANTICA CORFINIO

Estratto della conferenza di Corfinio, 7 luglio 2018

Ai fini del nostro discorso, che dovrebbe aiutarci a comprendere come si produceva, si distribuiva e in quali modalità e occasioni si consumava il cibo nell'antichità in questi luoghi, la geografia del posto ha una grande rilevanza. Anche gli scrittori antichi mettono in risalto la connessione tra clima, ambiente e produzione di generi alimentari: Ovidio negli Amores afferma che "i campi peligni sono attraversati da fiumi in lungo e in largo", e Silio Italico fa riferimento nei Punica al clima gelido di Sulmona mettendolo in relazione con la forza e l'asprezza dei suoi abitanti[1]. In effetti, il clima ha sempre influenzato non solo la tipologia e la resa delle colture e lo svolgersi dell'allevamento, ma anche la qualità e le modalità stesse dell'alimentazione delle popolazioni residenti.

 

La composizione della dieta tra gli antichi Peligni era ovviamente molto differente da quella attuale, proprio per un legame molto più stretto con i caratteri del territorio e del clima: intanto non c'era sempre disponibilità di tutti i cibi, ma l'alimentazione variava in base alle località, alla stagione, all'accessibilità di determinate risorse, alla vicinanza o meno alle direttrici commerciali. Possiamo citare, per fare un esempio topograficamente vicino, il caso di Fonte d’Amore a Sulmona, per cui sono disponibili analisi paleoantropologiche: la dieta nelle località periferiche, lontane dalla viabilità principale, fu almeno fino al tardo ellenismo scarsa, basata sui cereali, con poca carne e quindi povera di vitamine e proteine. A Corfinio la situazione è migliore, per la posizione favorevole all'incrocio delle direttrici viarie e per l'importanza del centro e del suo territorio. Non esistevano però prodotti che oggi sono considerati comuni, perché sono stati introdotti molti secoli dopo nel bacino del Mediterraneo e in Italia da altri luoghi o sono stati creati e selezionati progressivamente: esempi sono gli agrumi, le mele e pere di qualità “selezionate” e della grandezza attuale, cacao, patate, mais, banane e frutta esotica in genere. Possiamo ragionevolmente ritenere che la base dell’alimentazione consistesse in cereali (specie Triticum dicoccum, farro, e Hordeum, orzo); legumi, carne (ovicaprini, suini, pollame, pochi bovini e cacciagione), prodotti ittici; frutti spontanei oppure vegetali oggi “dimenticati” (varietà piccole di mele e pere) insieme ad altri ancora coltivati come uva; fichi, ciliegie (Plinio) ecc.

 

In attesa di analisi approfondite ed estensive sulla paleofauna e sui resti vegetali, l'utilizzo di specie oggi inconsuete si può ipotizzare sia perché le fonti di età romana ne parlano diffusamente, sia a partire dalle usanze tradizionali in voga fino al secondo dopoguerra: leguminose del genere della cicerchia; piccoli animali selvatici, es. tasso, ghiro o riccio, ma anche le chiocciole, famose soprattutto in età romana (Apicio); frutti come il corbezzolo, la rosa canina, la mora o alcuni tipi di bacche spontanee come la corniola; frutti secchi come noci e mandorle...

 

 

 

Per quanto riguarda la cerealicoltura, e in genere anche la produzione di alimenti di origine vegetale, Ovidio in più punti delle sue opere mette in connessione la grande ricchezza d'acqua della vallata con la fertilità del terreno e l'abbondanza di frutti e messi. Uno dei più antichi manufatti legati al consumo di cereali è un tipo di ciotola con un solo manico esposta nel museo De Nino in più esemplari, di cui uno adespota rinvenuto dal De Nino a fine 1800 e uno proveniente dallo scavo del 1994 nella necropoli della via di Pratola. Questo oggetto ha confronti anche ad Alfedena, Opi e Barrea, in territorio pentro, in età tardoarcaica e nel primo ellenismo (V-IV sec. a.C.) ed è stata avanzata l'ipotesi che non servisse solo per mangiare, come scodella, ma anche come attingitoio per derrate solide: si può ipotizzare, analogamente all'uso poi testimoniato per i romani, la conservazione di grandi quantità di granaglie e vegetali che poi venivano attinti con misurini come questo. Di età successiva (III-II a.C., fino all'età romana) sono invece alcune anfore a fondo piatto, di produzione locale, che per analogia con la forma Dressel 28 potrebbero essere state utilizzate per il trasporto di cibi solidi invece che di liquidi, come olive, alici e granaglie.

 

Ma i prodotti vegetali di gran lunga più importanti per il mondo antico, e destinati non solo al consumo locale ma anche all'esportazione e al commercio, sono senz'altro il vino e l'olio di oliva. Plinio, confermando la fertilità della vallata, ci attesta comunque che per via del clima molto freddo e continentale i vini peligni erano più aspri e meno gradevoli di altri, e che per impedire alle viti di gelare in inverno venivano messi in atto vari espedienti, come quello di circondarle di un reticolo di rigagnoli[2]; Ovidio conferma che la fertile valle era coltivata sia a vite che ad olivo. Anche in questo caso, l'abbondanza di materiali archeologici, rinvenuti negli scavi dal 1880 in poi, ci conferma sostanzialmente le parole degli scrittori: non c'è praticamente scavo nel territorio  -tanto di necropoli quanto di santuario, ma anche negli abitati vi sono evidenze in proposito-  in cui non siano stati rinvenuti servizi da vino, composti per lo più di un vaso grande (olla) e un attingitoio di dimensioni variabili, e anfore di vario tipo e cronologia, pensate per contenere liquidi come vino o olio.

 

Gli usi del vino in antico sono molteplici. A Corfinio e in genere nel territorio peligno, analogamente a quanto avviene in altre località abruzzesi, è possibile rinvenire, solitamente in contesti tombali, materiali connessi ad un'usanza di cui ci testimoniano già i poemi omerici, e poi probabilmente diffusasi in Italia attraverso le colonie greche d'Occidente. Soprattutto tra le aristocrazie arcaiche (attorno al VI secolo a.C.), il vino non veniva bevuto così com'era, ma mescolato con formaggio, miele e spezie per arricchirne il sapore: la mistura è chiamata in Omero kykeon. A Sulmona, nella sezione romana del Museo della SS. Annunziata, si trova una grattugia in bronzo utilizzata proprio per grattugiare il formaggio nel vino, mentre tra i materiali degli scavi De Nino di Corfinio, necropoli della via di Pratola, attualmente al museo della Civitella a Chieti, ho rinvenuto un simpulum, una sorta di mestolo usato per mescolare e per versare il vino. Da confronti con materiali di Pompei (Tassinari), questo è di età molto più tarda rispetto alla grattugia, ma esistevano anche mestoli con una serie di fori sul fondo, detti cola, con cui si filtrava il vino da tutte le impurità dopo aver lasciato che prendesse sapore.               

 

Oltre ai prodotti vegetali, la dieta degli antichi Peligni, come ovviamente quella dei moderni, comprendeva un assortimento di alimenti di origine animale. Una parte considerevole dell'economia locale era rappresentata dall'allevamento, specie da quello transumante, soprattutto ovino, come ci testimoniano un rilievo con animali transumanti e pastori e la famosa iscrizione dei callitani, in cui si invitano gli stessi a rimanere nei percorsi stabiliti, entrambi da Sulmona, ma abbiamo indizi della presenza e della discreta importanza di altri animali da latte e da carne. A Corfinio, in particolare, sono stati rinvenuti specialmente in ambito sacro, nel santuario di Sant'Ippolito, e nei dintorni della necropoli di via di Pratola, dei votivi di età ellenistica a forma di piccoli bovini e, più raramente, di suini, come questo cinghiale; dal santuario di Sant'Ippolito proviene anche una lucerna conformata a testa di bovino. Per quanto riguarda le statuette votive di animali, sono in argilla e sono state rinvenute in quantità consistente, avendo una funzione di sostituzione dell'animale vero. Il "sacrificio" di un bovino o di un suino in terracotta permetteva di evitare un danno economico che sarebbe stato rilevante con l'uccisione di un animale di taglia media o grande; il suino, in particolare, è interessante perché le fonti di età romana[3] lo mettono in relazione con il culto di Cerere, la dea della fertilità, e qui nel museo la testimonianza di ciò è rappresentata dal rilievo funerario con iscrizione della sacerdotessa di Cerere Helvia Pothine, datato al I sec. d.C. Il consumo di carne sembra essere suggerito in ambito funerario dalla presenza di piccoli coltellini in ferro all'interno delle coppe (che noi chiamiamo coppe come definizione formale, ma in realtà sono delle ciotole destinate a contenere solidi: anche il De Nino riferisce di averne trovate piene di semi, ceneri e ossi di piccoli animali, probabilmente pollame). Infine, anche il pesce sembra avere un ruolo significativo nell'alimentazione dei corfiniesi già in età ellenistica: nella tomba 1 dell'Impianata è stata infatti rinvenuta una padella in bronzo con all'interno delle lische di pesce, che testimoniano l'abitudine, da parte di interi nuclei familiari, alla pesca stagionale nel lago Fucino, protrattasi fino alla metà del XX secolo.            

 

Sappiamo con certezza, dalle testimonianze scritte, che tra i Peligni e a Corfinio anche il miele aveva un ruolo importante. Ricordiamo che nell'antichità non esistevano altri tipi di dolcificante: dunque gli unici alimenti dolci erano miele, frutta fresca e secca e derivati. Plinio e Calpurnio ci informano della pratica dell'apicoltura tra i Peligni, non solo per la produzione di miele ma anche di cera; la cera d'api e i prodotti secondari delle api, come ancora oggi, erano considerati di pregio, l'illuminazione quotidiana non era ottenuta per esempio con candele di cera d'api ma con più comuni lucerne (è noto l’uso dell’olio di oliva, ma è presumibile l’utilizzazione di altri olii, ad esempio di noce, di sesamo, di ricino o di pesce e probabilmente di olii minerali, già conosciuti nel periodo antico, e di grassi animali).

 

Più che per il consumo diretto, il miele era utilizzato in una quantità di ricette di cucina: per l'età preromana abbiamo l'attestazione omerica del consumo di vino con miele, come già abbiamo ricordato; il nostro immaginario collettivo, però, evoca prima di tutto la cucina di età romana, su cui abbiamo una grande quantità di testimonianze scritte: in primis l'opera del famoso Apicio, il primo libro di cucina vero e proprio di cui abbiamo notizia. Apicio ci trasmette diverse ricette con l'uso di miele, come i panini dolci cotti su foglie di lauro e aromatizzati al miele, e la tyropatinam, che potremmo considerare l'antenata della crema catalana, del budino e del crème caramel, per la sua composizione a base di uova e latte addolciti con miele e cotti in forno..se non fosse per l'uso di aggiungere al momento di servire una spolverata di pepe... 

 

Dopo aver esaminato "che cosa" si mangiava tra gli antichi Peligni, è interessante comprendere "come" gli alimenti venivano prodotti, distribuiti e consumati. Il discorso è molto lungo e complesso, pertanto in questa sede fornirò solo qualche spunto. Tra i materiali che ci testimoniano la produzione delle derrate alimentari uno veramente interessante è una macina proveniente da Ocriticum- Cansano, attualmente conservata al museo di Sulmona, del tipo detto "a tramoggia", destinata alla produzione di farina a partire dal grano. Questo oggetto è veramente particolare perché l'origine di tale tipologia si deve individuare in Asia minore; su suolo italiano è diffusa prevalentemente in Magna Grecia e questo è l'unico esemplare ad oggi rinvenuto in Abruzzo, ed è databile all'età ellenistica. Per tali motivi, possiamo pensare che non solo l'area di Corfinio e Sulmona, ma tutto il territorio peligno fosse interessato da una fitta rete di scambi commerciali che investivano non solo i beni di lusso, ma anche gli oggetti di uso quotidiano, tra cui quelli destinati alla produzione e trasformazione delle derrate alimentari. In questo caso, l'oggetto proviene dal deposito votivo di un'area sacra e sembra legato alla produzione di pane connessa al culto di Cerere (tesi di Orietta Pizzoferrato)[4].    

 

Non tutto il cibo, infatti, era prodotto localmente; nel millennio di storia circa che ci è possibile conoscere, a grandi linee, dell'antichità di Corfinio e della valle Peligna si registrano sensibili cambiamenti in questo senso. Fino alla prima età ellenistica, prima di Annibale e delle guerre puniche (tra l'inizio del IV e la fine del III secolo a.C.), l'alimentazione è prevalentemente basata su prodotti locali (diremmo noi "a km zero") oppure legati ai tragitti della transumanza e ai prodotti dell'allevamento transumante; abbiamo già detto che non solo alimenti, ma anche unguenti e cosmetici composti di sostanze alimentari erano commerciati lungo la direttrice adriatica e il tratturo che giungeva al Tavoliere, con i suoi vari diverticoli. Tramite l'Etruria, invece, usanze di origine greca, come lo stesso banchetto, il simposio e specialità come il vino al miele vengono adottate dalle aristocrazie locali perfino in età arcaica; ma il vero e proprio commercio di prodotti su lunga distanza e l'esplosione delle importazioni e delle esportazioni avvengono a partire dall'età annibalica e si intensificano dopo il 146 a.C., quando le conquiste di Corinto e di Cartagine aprono completamente il Mediterraneo all'espansione di Roma, e quindi di ritorno anche i popoli italici vengono interessati da una vera "rivoluzione commerciale". A Corfinio e in tutta la valle peligna abbiamo una grande quantità di indizi su questi flussi di scambi di merci, che si svolgevano prevalentemente per mare: in esposizione abbiamo decine di anfore a puntale, destinate al commercio del vino via nave; altri tipi di anfore, probabilmente di produzione locale, avevano fondo piatto e potevano essere utilizzate per derrate solide o per l'olio; alcune delle anfore presentano segni di riconoscimento che possono essere tappi con decorazioni o bolli sui manici o sul corpo. Tali segni ovviamente non hanno scopo decorativo ma prettamente informativo: offrono notizie sul fabbricante, sulla località di provenienza del contenuto, oppure, nel caso dei bolli rodii, possono anche indicare l'annata del vino con la segnalazione dei nomi dei governanti in carica quell'anno. Un discorso a parte meritano i curiosi oggetti detti fritilli, che nella valle peligna sembrano quasi esclusivamente peculiari di Corfinio: sono state fatte diverse ipotesi per il loro uso, alcuni li considerano unguentari, altri bussolotti per giocare a dadi, ma potrebbero anche essere una sorta di tappi per anfore.

 

Un oggetto particolarissimo, conservato nel Museo di Sulmona, è questo rilievo molto famoso, che mostra tutta la complessità della rete commerciale legata al vino nella valle peligna. Raffigura sul registro superiore un dromedario con due anfore da vino guidato da un uomo e inferiormente una fila di individui. I tratti delle persone raffigurate non sono visibili attualmente, ma niente vieta, come hanno notato studiosi come Gianfrotta e A. Tchernia, che possa trattarsi degli esponenti della gens Peticia, originaria della Marsica ma trapiantata a Sulmona, veri e propri "magnati" del vino, che commerciavano in tutto il bacino del Mediterraneo tra il I secolo a.C. e il primo d.C., le cui "firme" su anfore sono state individuate dal Sahara alla Liguria; uno dei membri di spicco della famiglia, Marcus Attius Peticius Marsus, come sappiamo, dedicò nel I secolo a.C. la famosa statuetta di Ercole Curino nel santuario omonimo.

 

Dopo la produzione ed il commercio, gli alimenti erano ovviamente destinati al consumo. Il cibo e le bevande potevano essere consumati in maniera sbrigativa, senza un apparato cerimoniale e rituale, per pure necessità di sostentamento; ma abbiamo le prove già prima dell'età romana che buona parte della popolazione, soprattutto i ceti medio-alti e le élites delle comunità, praticava rituali istituzionalizzati in cui il consumo di cibo e di vino diventava veicolo di significati simbolici e un mezzo per le famiglie in vista per affermare il proprio status, rinsaldare i legami con i pari grado nella gerarchia sociale e instaurare rapporti di supremazia sulle fasce sociali più basse. Tali istituti, il banchetto in cui si consumava il cibo e il successivo simposio in cui si beveva soprattutto vino, sono attestati già dai poemi omerici come largamente diffusi in tutto il bacino orientale del Mediterraneo e attraverso la colonizzazione da parte dei Greci in Occidente, nell'VIII secolo a.C., giungono in Italia meridionale e di lì in Etruria e Roma; a partire dal VII-VI secolo a.C. i corredi funerari ci testimoniano l'arrivo di tali pratiche anche in Abruzzo.                 

 

Nell'esposizione del Museo di Corfinio si trova una serie di oggetti variamente riconducibili all'uso del banchetto. In gran parte, come abbiamo detto, sono stati rinvenuti in tombe; la peculiarità delle tombe peligne, rispetto a quelle delle popolazioni confinanti, è proprio nella presenza fissa di un servizio di solito completo per cibo e bevande, comprendente un vaso grande per contenere vino, un vaso piccolo -attingitoio- che serve da misurino perché nell'uso omerico poi diffusosi in Italia il vino andava mescolato con un certo numero di parti di acqua, e una scodella o ciotola per il cibo solido, a volte contenente anche un coltello in ferro per la carne. Questa è la composizione standard del servizio, ma esso può variare nella tipologia dei materiali, a volte anche nel loro numero, ed è soggetto a cambiamenti nel tempo. E' importante notare come i pezzi del servizio da banchetto siano progressivamente sostituiti non nella funzione ma nella forma e nel materiale, spesso adattando forme che in origine non erano concepite per quell'uso: la "padella", secondo alcune interpretazioni (Piana Agostinetti), era originariamente destinata al lavaggio delle mani mentre qui le troviamo piene di cibo solido; in più questo stesso corredo comprende un'anfora a puntale da trasporto, che però sostituisce la funzione del vaso da vino. Perché? Perché a partire dal tardo III secolo, con le campagne di Roma in Oriente e in Africa dopo Annibale, gli italici, e i Peligni tra i primi, vengono interessati in pieno dai flussi di commercio nei nuovi mercati che si aprono e approfittano per avviare attività commerciali, come abbiamo già visto. Allora anche i corredi funerari presentano il simbolo di questa nuova ricchezza e del nuovo status di una classe sociale totalmente nuova di mercanti, che avrà con il tempo un peso sempre maggiore e finirà per scalzare le vecchie aristocrazie.          

 

La fabbricazione della cosiddetta "vernice nera" era il modo più economico di imitare nel vasellame ceramico la lucentezza delle stoviglie metalliche, che erano alla portata dei ricchi mercanti, ma troppo costose per gran parte della popolazione: ecco perché conosce una diffusione straordinaria come "servizio buono" delle famiglie di ceto medio per ben tre secoli, dal IV al I secolo a.C. Subito dopo si verifica nella zona di Arezzo un'innovazione tecnologica: gli stessi vasi immersi in argilla liquida, che prima erano cotti in ambiente riducente, senza aria, prendendo un colore nero lucente, ora vengono cotti al contrario in un'atmosfera ricca di ossigeno, e quindi assumono un colore rosso fiammante. In più l'impasto ceramico è leggermente diverso e vengono arricchiti di decorazioni e bolli a stampo. E' la nascita della cosiddetta "terra sigillata aretina", il primo gruppo di una classe ceramica che avrà una straordinaria fortuna e diffusione in tutto l'impero romano e che, sostituendo completamente la vernice nera, sarà prodotta in maniera industriale fino all'alto Medioevo.

 

Nelle tombe della via di Pratola, invece, sono stati rinvenuti dei curiosi esemplari di vasi, in gran parte a vernice nera, che hanno un collo "ad anatra", decentrato e con una serie di forellini in cima; il vaso ha solitamente un manico nella parte superiore. La certezza della funzione di questi oggetti è stata raggiunta con l'identificazione delle tombe di provenienza come infantili: in effetti l'askòs, questo tipo di vaso, non è altro che l'antenato del nostro biberon[5]. Ovviamente la presenza di esso ci riporta ad una realtà in cui la mortalità infantile doveva essere altissima e raramente i bambini non allattati naturalmente sopravvivevano. 

 

Anche in un contesto sacro, nel santuario in località S. Ippolito, sono presenti materiali connessi al consumo alimentare. Nel deposito votivo contemporaneo alla chiusura del santuario, avvenuta nel I secolo a.C., infatti, si trovano oggetti di uso comune come olle, coppe, vasellame da mensa in ceramica comune, vernice nera e anche sigillata aretina. Inoltre vi sono riproduzioni di capi di bestiame in terracotta, con la funzione di sostituzione dell'animale reale in una forma di sacrificio. E' inconsueta, invece, una riproduzione in terracotta di una mela cotogna (Cydonia oblonga) sacra alle divinità infere Demetra e Persefone: era stato ipotizzato che fosse una melagrana, più comunemente in associazione con Persefone, ma a differenza di questa non presenta l'inconfondibile ciuffo. La cotogna, in funzione di offerta votiva, è un frutto che ha confronti in ambito etrusco, soprattutto a Tarquinia, Gravisca, Vulci e Spina (Sgubini Moretti), e rappresenta il legame con il mondo sotterraneo e con il ciclo della morte e rinascita. Questo ci fa riflettere sul valore non solo materiale del cibo, ma anche sull'immensa varietà di significati simbolici che esso racchiude e che sono strettamente connessi alla cultura e al contesto cui si fa riferimento.

 

Se pensiamo alla cucina e all'arte di trasformare il cibo nell'antichità, possiamo supporre che prima della romanizzazione le popolazioni abruzzesi non avessero un ricettario granché articolato: i cibi erano preparati e consumati in maniera semplice, poco elaborata, con i cereali ridotti in farina per farne polenta di farro e focacce (ricordo che non era ancora conosciuto il mais), le carni arrostite o bollite e pochi condimenti. Dopo la romanizzazione invece sembra di cogliere dei mutamenti, ma non ovunque allo stesso modo nei diversi territori romanizzati. A Corfinio abbiamo seguito alcuni di questi cambiamenti per quanto ce lo permettono i dati materiali e l'esame delle fonti scritte degli autori latini: mutamenti nelle modalità di produzione, nei materiali legati all'attività commerciale, nelle suppellettili da tavola, ma anche nel valore economico, di status e simbolico-sacrale dei manufatti.

 

Il cibo, insomma, oltre che un mezzo di puro sostentamento, si rivela come veicolo e produttore di cultura: la sua necessità innesca lo sviluppo tecnologico e il commercio, provocando il sorgere di interazioni (pacifiche o non di rado meno pacifiche!) tra popolazioni differenti; la modalità di consumo del cibo può diventare, come abbiamo visto, un mezzo di distinzione sociale e di affermazione di status; e infine il cibo è un veicolo insospettabilmente potente di significato, che può anche connettersi alla sfera sacrale: cibo come ultimo pasto per i defunti, grazie al quale possediamo tante informazioni sui manufatti ceramici e metallici che costituivano il corredo delle tombe; e cibo come offerta sacra agli dei, e come tale degno di varcare i confini dello spazio del santuario.  

 

 

 

    Bibliografia essenziale

 

F. Van Wonterghem, Forma Italiae, IV. Superaequum, Corfinium, Sulmo, Firenze 1984. (Materiali soprattutto adespoti)

 

A. Campanelli, V. Orfanelli, P. Riccitelli, Il santuario di Ercole a Corfinio, in M. Pacciarelli (a cura di), Acque, grotte e dei. 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo (Catalogo della mostra, Imola 1997), Fusignano (RA) 1997, pp. 184-202. (S. Ippolito)

 

V. D’Ercole, M. R. Copersino, Documenti dell’Abruzzo antico. La necropoli di Fossa, IV. L’età ellenistico-romana, Pescara 2003. (Impianata)

 

F. Romito, D. Sangiovanni, Tombe „a grotticella“ peligne di età ellenistica, in G. Tagliamonte (a cura di), ricerche di archeologia medio-adriatica. I: le necropoli, contesti e materiali, atti dell’incontro di studio Cavallino-Lecce, 27-28 maggio 2005, Galatina –Martina Franca 2008 ,pp. 195-230.  (Necropoli)

 

A. Dionisio, La valle del Sagittario e la conca peligna tra il IV e il I secolo a.C.: dinamiche e sviluppi della romanizzazione, Oxford 2015. (Materiali da necropoli e santuario)

 

H. Tosini, Apicio e la cucina degli antichi romani, in Ager Veleias, 10.15, 2015

 

AA. VV., L’alimentazione in Italia antica, a cura del Mibact, http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/origini/index.html

 

 

 

 

 



[1] Sil. It., VIII, 509-510: Ad essi si uniscono i fieri / Peligni, conducendo le loro schiere dalla fredda Sulmona (Trad. Vinchesi 2001). 

[2] Plin. 17, 250: "I vini assai aspri del territorio sulmonese desiderano acqua, nel pago Fabiano, in cui si irrigano ancora le campagne; e in modo stupefacente con quell'acqua le erbacce muoiono e i cereali si nutrono, e l'irrigazione ha l'effetto della sarchiatura. Nello stesso posto in inverno, tanto più se c'è neve o ghiaccio, perché il gelo non bruci le viti, le circondano di rigagnoli d'acqua, e chiamano questa operazione "tepidare": perché quella di essere tiepido in inverno è una natura meravigliosa propria di un solo fiume. Ma esso stesso, in estate, è talmente freddo che le sue acque sono quasi insopportabili".   (Traduzione mia) 

[3] Hor., Ep., Tellus; Ov., Fast., Gell., N. A.; Serv., Ad Aen; Macrob., Sat., Ceres.

[4] Pizzoferrato, in Tuteri et al. 2005, pp. 78 ss. 

[5] In altri contesti, in sepolture di bambini più grandi, gli askoi non sono presenti. A Fonte d'Amore a Sulmona, per esempio, le tombe infantili si caratterizzano per la miniaturizzazione e l'esiguità del corredo: ollette, coppette, collanine in quelle di bambine, ecc...Nemmeno da Anversa provengono esemplari di questa forma: lì le tombe di neonati e infanti sono quasi sempre senza corredo.     

 

 

Le magistrature dei Peligni attestate dalle iscrizioni . 1: la prima età ellenistica

All’interno del gruppo delle iscrizioni a destinazione “pubblica” rinvenute nella valle peligna  (si intendono quelle celebrative e commemorative), alcune menzionano opere compiute da magistrati e figure di rilievo nell’amministrazione delle comunità. Ma anche una parte delle iscrizioni funerarie trasmette informazioni sull’esistenza, sia prima che dopo la conquista romana, di un sistema amministrativo in cui alcuni personaggi emergenti dovevano rivestire un ruolo centrale: le cariche pubbliche e i titoli onorifici ad essi attribuiti vengono puntualmente ricordati nei documenti epigrafici e si distribuiscono lungo tutto l’arco cronologico di riferimento, dalla fine del IV secolo a.C. alla romanizzazione piena.

 

Nell’Italia centromeridionale un assetto economico basato sulle strutture agrarie, pressoché identico tra Roma e l’Italia, favorì fin dalle origini lo sviluppo di magistrature simili, e in generale tra le strutture politiche e sociali. I profondi mutamenti economici, e conseguentemente istituzionali, del II sec. a.C. sarebbero dovuti in primis allo sviluppo di nuovi tipi di aziende e colture, che causò il declino dei piccoli proprietari tanto in territorio romano che italico; e in secondo luogo all’interesse comune delle élites dirigenti romana ed italica nell’ampliamento degli orizzonti commerciali verso le province, cui faceva riscontro anche un crescente coinvolgimento negli apparati militari dei ceti medio-bassi, come mezzo di ascesa sociale (GABBA 1979).

 

La menzione di meddices, invece, si trova invece in due iscrizioni, entrambe di III secolo a.C.: una da Pratola Peligna (RIX 2002), che nomina due personaggi, ma in cui verosimilmente solo uno è il medix (poiché medix aticus è al singolare):

 

 

 

 medix. aticus / biam. iocatin / P. Sadries. T / V. Popdis. T

 

e una da Tocco Casauria, nel territorio di confine di Interpromium, in cui il medix è sicuramente unico (RIX 2002 MV3):

 

Pa. Petroni / Pom. f. bea. / ecan. fec / medix

 

 

 

Il meddicato può essere considerato un’istituzione esclusiva dell’ambiente osco ed abruzzese meridionale; non esistono testimonianze di questo istituto a nord del territorio peligno. Ciò nonostante, come si può arguire dalla testimonianza fornita da Festo (110 L) e da alcuni passi della Tabula Bantina, il significato originario del termine era semplicemente quello di “magistrato”, e solo in un ben preciso caso indica il singolo, o la coppia, che rivestiva la più alta carica dello Stato: quando per meddiss si intende meddiss toutiks (CAMPANILE, LETTA 1979). 

 

A partire da un momento, che per i Peligni possiamo collocare attorno alla fine del IV e agli inizi del III sec. a.C. (forse in concomitanza con gli avvenimenti storici del foedus del 304 e dell’immediatamente successiva fondazione delle colonie nel territorio equo e marso), iniziano ad apparire progressivamente nei documenti epigrafici testimonianze di magistrature comuni anche al mondo romano; scompare del tutto, invece, l’attestazione del meddicato. È probabile che questa scomparsa fosse dovuta più a motivi pratici e ideologici che ad una qualche imposizione esterna: da una parte, l’istituzione fu svuotata del suo contenuto per via del conferimento delle mansioni maggiori alle magistrature di origine romana, che “concretamente offrivano il benefizio di una più alta specializzazione di funzioni”; ma dall’altra, si ha l’impressione che tale trasferimento più che ad una costrizione fosse dovuto al “prestigio proprio di ogni cosa di origine romana(Ibid.).     

 

 A Molina una magistratura collegiale, molto simile come mansioni all’edilità (per alcuni, la A iniziale dell’iscrizione sta proprio per aidiles), è attestata da un’iscrizione (RIX 2002, Pg 2), di molto anteriore al 90 a.C. (M. Buonocore la data alla fine del IV- prima metà del III secolo a.C.): dunque, l’edilità, o almeno un suo corrispettivo, rappresenterebbe una delle magistrature spontaneamente introdotte dagli italici su modello romano. Figure di edili, sempre in collegi di due o più, si riscontrano anche nei vicini Vestini; viceversa, menzioni di altre magistrature attestate tra i popoli finitimi, quali la censura (ibid.,  VM 3) o la questura (CAMPANILE, LETTA 1979, n. 21), non si rinvengono tra i Peligni.

 

A Secinaro, la stessa istituzione dell’edilità è confermata da iscrizioni romane (RIX 2002, MV 2 e 12), da cui emerge anche la distinzione tra l’istituto dell’edilità e il collegio dei magistri pagi, che non sembrano rappresentare la stessa magistratura in fasi diverse ma in alcune iscrizioni sono menzionate insieme (LA REGINA 1968, D'ERCOLE, TUTERI 1991). M. Buonocore ha ipotizzato che i magistri ad sacra svolgessero funzioni specificamente religiose e i magistri pagi avessero invece un ruolo prettamente operativo nell’edilizia urbana (BUONOCORE 1990). Resta comunque da specificare la differenziazione di funzioni tra le due cariche, che sono menzionate in numerosi documenti; i primi sembrano, più che figure amministrative, dei veri e propri collegi con funzione sacerdotale, preposti al culto ordinario di numerose divinità anche minori, e che non mostrano di convertirsi, con la romanizzazione, in duovirato, come avviene per i magistri pagi .

 

Appunti preliminari sul toponimo Cerfennia

Questo trafiletto è il frutto di una ricerca sommaria (destinata ad ampliamento) su un toponimo che è attestato nei pressi di Collarmele (AQ). Non si tratta sicuramente di una vera città, ma poiché ricerche recenti hanno rivelato dati interessanti, ecco qualche riferimento bibliografico.

Per approfondire consiglio di leggere le notizie dei Quaderni di Archeologia d'Abruzzo. In più, nello stesso comprensorio è stato rinvenuto un oggetto molto interessante, un donario in pietra calcarea iscritto con una dedica: si veda la pubblicazione di Cesare Letta. Un mio breve contributo a proposito del donario è in uscita nel prossimo numero dei Quaderni. 

 

Cerfennia

 

Itin. Anton. 309, W = 46 C.

 

Tab. Peut. 6,2: Cirfenna.

 

Ravenn. 4,35 (282, 4 PP. = 73,19 S.): Cerfenna, tra Mons Imeus e Sulmona.

 

Guid. 46 (485,6 PP. = 123,55 S.): Cerfenas.

 

CIL IX, 5973:  Ti. Claudivs / Caisar / Aug. Ger. Pont. Max / trib. pot. VIII. imp. XVI / cos. IIII. P. P. censor / viam. Clavdiam. Valer(iam) / a. Cerfennia. Ostia. Ate(rni) / munit. idemque / pontes. fecit / XLIII.

 

Centro, nominato espressamente solo negli itineraria tardoantichi e in un'iscrizione del 48 d.C., sito nei pressi di Collarmele (AQ).  Vd. s. v. Cerfennia, in RE III, col. 1979; Salmon 1985, p. 269; Buonocore, Firpo 1998, p. 274, con bibliografia.

 

 Probabilmente il toponimo si riferisce ad una statio, sebbene alcuni abbiano ipotizzato che facesse riferimento ad un oppidum preromano: Letta 1988, p. 224.

 

in seguito inglobato, dal I secolo a.C. in poi, nel territorio del municipium di Marruvium.

 

Liv. IX, 44 afferma che una Cesenna (vd. s. v. Cesenna) fu distrutta dai Romani nel 304 a.C. e diversi studiosi hanno proposto l'identificazione con la località in questione: Mommsen in CIL IX, p. 348; De Ruggiero, in DE, II, p. 212. Per Letta 1972, pp. 120-123, invece, l'ipotesi è problematica. L'esistenza del toponimo Campo Cerfegna nel territorio di Collarmele ha suggerito l'identificazione di questo centro con l'antico nucleo preromano: Zenodocchio 2008, p. 212.

 

Per quanto riguarda l'iscrizione CIL IX, 5973, Mommsen riferisce: "nuper rep. M. p. sub Teate ad Aternum fl. in praedio Iosephi de Letto ICti Teatini extra portam S. Andreae proxime ab ea. Holst. similiterque Cam. Nicol. Dubitare se num extet ait Allegranza Nov. Fior. 1754 p. 143". L'iscrizione è datata al 48 d.C. e menziona i lavori di prolungamento e ristrutturazione della Tiburtina Valeria sotto l'imperatore Claudio, che regnò dal 41 al 54 d.C. e che per tale motivo aggiunse il nome di Claudia alla via; si afferma che munì la strada e la provvide di ponti.

 

Gli itinerari di età tardoantica trasmettono per questa città le distanze da altri centri principali. Per l'Itinerarium Antonini, essa dista 23 miglia da Alba Fucens e 16 da Corfinio; la Tabula Peutingeriana trasmette invece la distanza di 7 miglia da Marruvium, 20 da Alba e 12 da Corfinio. Per il miliarium Claudii, invece, la distanza con Ostia Aterni è 43 miglia.

 

L'Holstenius annota: "Cerfenniae clarissima apparent vestigia prope collem Armellum, murorum scilicet vestigia et aquaeductus subterraneus maximus et proximo monte eo perductus; tum vero ecclesia S. Felicitatis, quam bullae veteres in Cerfenna commemorant, nunc ad collem Armellum extat" (Holstenius, adn. ad Cluverium p. 153). Qui si fa riferimento ad Ughelli, che nel 1717, nell'Italia Sacra, cita una chiesa di S. Felicitas in Cerfenna, il cui nome sarebbe noto almeno dal XII secolo nella Bulla di Pasquale II (1050-1118). La chiesa avrebbe fatto parte dei possedimenti di Farfa almeno dal 789-822: vd. Staffa 1992, pp. 792-793.

 

Il toponimo Collem Armellum o Collarmenum è moderno perché non appare in nessuna fonte precedente l'Holstenius.

 

Così invece il Mommsen: "Bullam intellegi Paschalis II, qua definitur dioecesis Marsicana, et ecclesiam eam S. Felicitatis in Cerfenna vere esse prope Collarmenum scripsit ad me Horatius Mattei"  (Mommsen 1850, p. 348).

 

La zona è stata indagata in maniera non sistematica a partire dalla fine del XIX secolo; il De Nino segnalava nel 1897 l'esistenza di un probabile vicus nei pressi di Cerchio (località S. Monica- I Cantoni: NotSc 1897, pp. 385 ss.; notizia citata in Ceccaroni, Borghesi 2012, p. 504.). L'ipotesi circa l'esistenza di una necropoli connessa a tale centro, riferibile al PF2 e all'Orientalizzante, ha avuto di recente conferma per via del rinvenimento di dischi in bronzo (Cosentino et al. 2001, pp. 178-180) ed elementi di corredo maschile (Ceccaroni 2011), mentre secondo alcune testimonianze orali negli anni '60 vennero recuperate nella zona delle statuette bronzee di Ercole, a breve distanza dal luogo in cui, nel 2007, è stato recuperato un donario in calcare con dedica ad Ercole: vd. s. v. *Ei(e)dianus, vicus.

 

Strutture pertinenti ad un'occupazione della zona in età romana, riferibili tanto allo sfruttamento agricolo (tracce di terrazzamenti) quanto all'esistenza di abitazioni e probabili luoghi di culto (bronzetti di Ercole, vicinanza ad una sorgente d'acqua), sono poi state messe in luce durante una campagna di scavo della Soprintendenza archeologica abruzzese svoltasi proprio a Cerchio nel 2010.

 

 

Inizia la campagna #RockSamnium

Il prosieguo delle campagne di scavo nel sito di Pietrabbondante (IS) è incerto per mancanza di fondi. ADERISCI ALLA CAMPAGNA di crowfunding per assicurare il futuro delle ricerche!

Info su https://igg.me/at/rocksamnium/x

Il 17 aprile tutti a votare!! Facciamo in modo che il nostro petrolio siano il MARE, le BELLEZZE NATURALI, il PAESAGGIO, l'ARTE l'ARCHEOLOGIA e la CULTURA millenaria di questo Paese! PIU' SCAVI ARCHEOLOGICI, MENO TRIVELLE!!!

Inaugurazione mostra 2016: immagini

Mostra di Sulmona, Palazzo della SS. Annunziata, 25 febbraio-31 maggio 2016. Museo. Panoramica della città. Nella sezione Articoli e contributi è scaricabile il PDF della guida

Il Museo Archeologico di Sulmona: aspettando la Mostra 2016

Dopo un lunghissimo silenzio, eccomi!

Ho passato diversi mesi nella scoperta e nella valorizzazione di uno dei tesori più sconosciuti (e trascurati) della conca peligna: il Museo Archeologico della SS. Annunziata a Sulmona.

Il complesso architettonico dell'Annunziata, con impianto trecentesco ma ampiamente rimaneggiato nei secoli, si trova proprio al centro della città, in pieno Corso Ovidio. Salendo su una gradinata imponente, si accede al Centro informazioni turistiche a destra e alla chiesa dell'Annunziata a sinistra. Il Museo, con le sue varie sezioni, ha l'ingresso al centro dell'edificio.

Da un cortile centrale si accede a destra, a pianoterra, al Museo Italico, che espone contesti e materiali pertinenti alla preistoria, protostoria, fino all'età ellenistica, rinvenuti nel territorio. Notevoli sono i materiali paleolitici del sito delle Svolte di Popoli (500.000 - 15.000 a.C. ), quelli neolitici di diversi contesti locali (7000-4000 a.C.), e i materiali di età storica, tra cui i contesti funerari di Anversa degli Abruzzi, che i frequentatori di questo sito e i miei lettori conoscono già molto bene!  

Una parte dell'esposizione è dedicata alle iscrizioni più antiche della zona di Sulmona e paesi vicini (Introdacqua, Pettorano), in alfabeto latino e lingua italica, attestanti il sacerdozio di Cerere. In più sono presenti un rilievo con iscrizione, con una scena di transumanza, e una lapide che testimonia le controversie tra gli abitanti della città e i pastori itineranti.

Sempre a piano terra, a sinistra, si accede alla cosiddetta Domus di Arianna: scoperta nei primi anni '90, rappresenta un notevole esempio di musealizzazione in situ. Lo scavo urbano ha rivelato un'abitazione signorile, con diversi ambienti con pavimento a mosaico bianco e nero poi obliterati da nuove strutture nel tardoantico e Medioevo. L'interesse principale della domus è nella sua antichità: rappresenta una testimonianza della prima fase abitativa della Sulmona romana (finora non sono state rinvenute strutture più antiche all'interno della città), di pieno I secolo a.C.; ma anche e soprattutto negli splendidi affreschi parietali  con storie di Arianna e Dioniso (da cui il nome dato all'edificio dagli archeologi), in stile pompeiano. Sulmona è una città nutrita di mitologia!

Al piano superiore è collocato il Museo dell'età romana. Questo espone una ricostruzione molto bella (e molto accurata) dell'interno del sacello del Santuario di Ercole Curino, a Fonte d'Amore; sono visibili anche i corredi delle tombe rinvenute nel pendio sottostante (scavi 1980). Il resto dell'allestimento è organizzato per temi: vino e grano (materiali privi di contesto), culti (scavi di Cansano 2001), tombe e necropoli (scavi De Nino, XIX secolo), e un cospicuo spazio dedicato alle collezioni di Piccirilli e soprattutto di Giovanni Pansa, di cui fra l'altro è ricorso, nell'anno 2015, il 150° della nascita. Per finire, la storia di Sulmona e del suo territorio è conclusa dall'esposizione dei materiali riferibili alle fasi tardoantiche e medievali della città.

A fianco alla sezione romana si trova il Museo della Tradizione e del Costume popolare, che conserva decine di abiti tradizionali originali di molti paesi dell'Abruzzo e diversi oggetti e manufatti di artigianato popolare.

Scendendo in cortile, nei pressi dell'uscita, una gradinata porta al Museo civico medievale e moderno. Qui si possono osservare pregiatissime sculture in pietra e lignee, oggetti di arte orafa e sacra e grandi tele provenienti dalle maggiori chiese della città e del circondario, specie dall'Annunziata e dalla Badia Morronese.

Se avete in programma un viaggio in Abruzzo, vale la pena di visitare questo splendido Museo. E se riuscite a programmare la vostra visita per il periodo che va dal 25 febbraio in poi, potrete visitare anche la mostra che stiamo allestendo, dal titolo Dai confini del mondo alla patria di Ovidio. Uomini, merci e idee, e che sarà incentrata sul tema degli scambi e dell'interculturalità nel mondo antico.

Ma non anticipo niente... stay tuned!        

Dedicato a Khaled al-Asaad: Pietrabbondante 2015

Dedichiamo il nostro lavoro di Pietrabbondante a Khaled al-Asaad, 82, archeologo, ucciso a Palmira il 18 agosto e a Kassim A. Yehya, 37, archeologo, ucciso nel Museo di Damasco il 12 agosto.

 

Unsere Arbeit in Pietrabbondante ist Khaled al Asaad, 82, Archäologe, der in Palmyra am 18. August getötet wurde und Kassim A. Yehya, 37, Archäologe, im Museum von Damaskus am 12. August getötet, gewidmet.

 

Pietrabbondante, 26 agosto 2015

 

Adriano La Regina, Roma Ulrike Koy-Seemann, Stuttgart Florian Birkner, Berlin

Laura Nazim, Bochum

Gregor Schuster, Berlin Lea Wurzenberger, Freiburg Chiara Baranello, Campobasso Tatiana Votoubekova,Kosice Johanna Trabert, Marburg Carola Moser, Stuttgart Corinna Leopold, Regensburg Jessica Sum, Berlin

Giulia Caputi, Roma Magdy Tawfik, Roma Yulia Vodolazska, Berlin

Sebastiano Angelini, Roma Angela Pulvirenti, Acireale Leonardo Farneti, Roma Daniele Deidda, Cerveteri Dario Galassi, Roma

Laura Mazzoni, Roma Francesca Genovese, Siracusa Maurizia Cristiano, Napoli Alfonsina Esposito, Belluno Rosaria Saladino, Potenza Pietro Cerudelli, Brescia Veronica Esposito, Fiumicino Elisabetta Corbelli, Roma Simone Boccardi, Roma

Chiara Casale, Monte San Biagio Luca De Fabritiis, Roma Roberto Mazzeo, Roma Andrea Bonci, Macerata

Anna Dionisio, Lettomanoppello

Palma DAmico, Roma Sara Polvere, Roma Cinzia Conti, Roma

Giangiacomo Martines, Roma Benito Di Marco, Chieti Nadia Raimo, Isernia

Agnese Mrosek, Frosinone Annalisa Citoni, Roma Gino Vitullo, Venafro Damiano Santillo, Isernia

A. DIONISIO, La valle del Sagittario e la conca peligna, Abruzzo, tra il IV e il I secolo a.C. Dinamiche e sviluppi della romanizzazione, Oxford 2015

ABSTRACT. The present study relies on the analysis of all available published and unpublished data regarding the Sagittario Valley and the Peligna Dell, in order to understand how much the Romanization process affect eachand all areas as parts of them between fourth and first century BC.

The counting of bibliographic documentation, archive, historical, archaeological and epigraphic is carried out in a systematic manner, taking into account the heterogeneity of the sources and the state of the documentation; the volume also includes a card catalog, this annex showing contexts, materials, and inscriptions with recontextualization whereas relationships between them are lost. They reconstructed the long-running processes by which the influence of Rome produces remarkable changes in settlements and roads, in necropolis and burial rituals, in cultural materials, in language and writing as well as in worships and in political, administrative, economic and social development of people living in these places.

The geography of the region makes some territorial subdivisions distinguishable, affecting both rapidity and modality of communications with Rome: primarily the southern area, with its valley furrowed by Sagittarius river and the range of hills at the foot of Mount Morrone, is less exposed to contacts and inserted, until the Roman period, in a circuit of cultural and commercial centers that counts Piceno, Sannio, and Daunia subregions as protagonists, whilst northernvalleys has already been for a long time in the middle of an intense flow of exchanges with the Tyrrhenian side through the roads that will be critical in influencing the birth of the Via Valeria. In addition, the structure of the southern settlement remains as the type defined "paganico-vicano", while in the valley early processes of urban concentration  occur, nearby Corfinium and, later, Sulmo.

Particular attention is devoted to the examination of epigraphic evidence, that were found in substantial quantitiesin these locations. Thanks to the epigraphy,  it was possible to receive a large amount of information about manner and timing in transmitting the Latin alphabet (which replaces the vernacular one by the fourth century BC), earlier used in the local language; it was also possible to understand how the real language romanization occurs during the late Hellenistic period and is accomplished only after the Social War.

Finally, the examination of inscriptions allowed to integrate archaeological evidence and historical sources in order to define the transformation of institutional forms and elements of religiosity: both these aspects, as well as the linguistic profile strictly considered, show the willingness of the local population to assimilate the uses of the Romans and tojoin the romanized italic society with the ability to access the cursushonorum and to obtain privileges reserved to the partners of Rome in commercial and military deals.

This phenomenon, which can be defined as "self-romanization" following Coarelli and the tradition of previous studies, is identified as crucial in the process leading to the Social War of 90 BC as well as toaimat obtaining full recognition by the Roman state through citizenship rights.



Il presente studio si avvale dell'analisi di tutti i dati editi ed inediti disponibili riguardo la valle del Sagittario e la conca peligna, allo scopo di comprendere quanto e come il processo di romanizzazione incida nei singoli comprensori che ne fanno parte, in un periodo compreso tra il IV ed il I secolo a.C.

Lo spoglio della documentazione bibliografica, di archivio, storica, archeologica ed epigrafica è effettuato in maniera sistematica, tenendo conto dell'eterogeneità delle fonti e dello stato della documentazione; al volume è annesso un Catalogo con schede dei contesti, dei materiali in essi rinvenuti e delle iscrizioni, con ricontestualizzazione ove le relazioni tra essi sono andate perdute. Vengono ricostruiti i processi di lunga durata con cui l'influenza di Roma produce dei cambiamenti sensibili nell'assetto insediativo e della viabilità, nelle necropoli e nella ritualità funeraria, nella cultura materiale, nella lingua e scrittura, nonché nel culto e nell'assetto politico, amministrativo, economico e sociale della popolazione residente in questi luoghi.

La conformazione geografica della regione rende distinguibili alcune suddivisioni territoriali, che condizionano la rapidità e le modalità del contatto con Roma: emerge soprattutto come l'area meridionale, con la valle del fiume Sagittario e la fascia collinare ai piedi del monte Morrone, sia meno esposta ai contatti ed inserita fino alla piena età romana in un circuito culturale e commerciale che ha come protagonisti il Piceno, il Sannio e la Daunia, mentre l'area valliva a settentrione è già da un'età molto antica al centro di un intenso flusso di scambi con il versante tirrenico tramite la viabilità orizzontale che sarà fondamentale per la nascita della via Valeria. Inoltre, anche l'assetto insediativo della zona meridionale rimane del tipo definito "paganico-vicano", mentre nella vallata si verificano processi precoci di concentrazione urbana, in corrispondenza di Corfinium e in seguito Sulmo.           

Un'attenzione particolare è dedicata all'esame delle testimonianze epigrafiche, che in queste località sono state rinvenute in quantità consistente. E' stato possibile apprendere, con l'ausilio dell'epigrafia, una grande quantità di informazioni circa le modalità e i tempi della trasmissione dell'alfabeto latino (che dal IV secolo a.C. sostituisce quello encorio), all'inizio utilizzato per la lingua locale; si è potuto comprendere come la vera latinizzazione linguistica avvenga nel corso del tardo ellenismo e giunga a compimento solo dopo la guerra sociale.

L'esame delle iscrizioni ha permesso, infine, di integrare la documentazione archeologica e le fonti storiche allo scopo di definire le trasformazioni delle forme istituzionali e degli elementi della religiosità: in entrambi questi aspetti, oltre che in quello strettamente linguistico, emerge la volontà della popolazione locale di assimilarsi agli usi romani e di entrare a far parte della società italica romanizzata, con la possibilità di accedere al cursus honorum e ai privilegi che le attività commerciali e militari al fianco di Roma consentivano.

Questo fenomeno, definibile -sulla scorta del Coarelli e della tradizione di studi precedenti- "autoromanizzazione", è individuabile come fondamentale nel processo che condurrà alla guerra sociale del 90 a.C. e al tentativo di ottenere un riconoscimento dallo stato romano mediante la concessione della cittadinanza.          

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Conferenza "Antiche genti italiche nella Valle del Sagittario", Scanno (AQ)

Il 1 agosto 2015 ho tenuto presso l'Auditorium "G Calogero" di Scanno (AQ) una conferenza, organizzata dal Comune di Scanno, dall'Associazione La Foce e dall'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte. Ecco il testo e la presentazione ppt in formato PDF scaricabile.  


CONFERENZA 1 AGOSTO 2015.pdf
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Presentazione 1 parte
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Presentazione 2 parte
CONFERENZA Scanno 2 parte ppt.pdf
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Presentazione 3 parte
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Pietrabbondante (IS). Cronaca di un viaggio

 

 

 

Sono appena di ritorno dagli scavi di Pietrabbondante (IS), una piccolissima località dell'alto Molise. Scavo lì dal 2010 e ogni volta mi lascio prendere dal fascino per la bellezza unica del sito archeologico: un grande complesso santuariale articolato su terrazze, che comprende tra l'altro un teatro (probabilmente usato come sede per riunioni politiche) in asse con un tempio a tre celle (Tempio B), entrambi databili al II secolo a.C., che è senz'altro il più famoso dei monumenti presenti; altri edifici di culto (Tempio A ed un nuovo edificio appena scoperto) pertinenti a diverse quote cronologiche; una domus publica, edificio legato alla presenza dei più alti magistrati della Confederazione sannita, con un grande portico (stoà), attualmente non ancora aperta al pubblico; ed alcuni edifici e cantieri minori, tra cui a N della domus un complesso termale e una calcara, e a NE del tempio A un terrazzamento rioccupato nel Medioevo (XII-XIII sec. d. C.)

Il santuario, i cui scavi sono iniziati nel 1959, non cessa di riservare sorprese. Attualmente le fasi della frequentazione sono sicuramente più chiare che in passato: il tempio A doveva essere più antico del teatro-tempio B, alla cui destra è situato; ancora precedente sembra essere un edificio posto a valle di entrambi, attualmente in corso di scavo e non visitabile (ma speriamo lo sarà presto). Nel II secolo a.C., sulla scia dei grandi lavori di monumentalizzazione che vengono effettuati nella maggior parte dei santuari italici (esempi molto vicini sono il santuario di Ercole a Sulmona e il santuario di Palestrina) anche quello di Pietrabbondante riceve una sistemazione scenografica e simmetrica. Appare chiara la funzione dell'intero complesso: un luogo sacro ma anche importantissimo a livello politico, in cui confluivano i maggiori rappresentanti di tutto il Sannio, e che fu attivo in modo intensissimo dal IV al I secolo a.C., per poi perdere importanza politica e religiosa a partire dalla guerra sociale (90-88 a.C.) e venire assegnato ai Socelli, famiglia di veterani ed ex militari di Augusto, di cui poco distante si è rinvenuto il mausoleo.

Il tempio B, di grandi dimensioni, è sicuramente l'edificio templare più imponente mai costruito nel Sannio: del tipo con podio alto e gradinata frontale, esso si articola in un portico anteriore, su cui rimangono le tracce delle enormi colonne, e un naos tripartito, le cui celle -sull'esempio della classica architettura templare italica- erano dedicate ognuna ad una divinità (una delle tre doveva essere Ops Consiva, dea delle messi, a cui sono state trovate dediche nel santuario). La gradinata collegava direttamente con la cavea del teatro antistante, che si trova a quota molto più bassa. Il teatro ha solo i 4 filari inferiori di sedili in pietra e una summa cavea (parte più alta della platea) che segue il pendio naturale, e i cui sedili erano forse fatti di legno perchè non hanno lasciato tracce: la particolarità risiede nel fatto che gli schienali dei sedili in pietra sono anatomici, e quindi comodissimi... il primo esempio nella storia! Antistanti alla scena del teatro sono tutti gli apparati tipici dei teatri classici: una frons scaenae (edifici scenici, di cui rimane solo una piccola parte dell'alzato) e due parodoi (entrate laterali per gli attori, o in questo caso per chi doveva parlare in scena). Ciò nonostante, sembra che l'edificio dovesse essere usato piuttosto per riunioni politiche che per rappresentazioni teatrali. In effetti il santuario era il centro focale della vita politica della nazione sannita: tanto che secondo alcuni Pietrabbondante è da identificare con uno dei centri di prima grandezza del Sannio antico (forse Bovianum vetus). 

Nel 2002 è stata scoperta, nella parte meridionale del complesso, una grande struttura riproducente i caratteri delle case private, ma di dimensioni ragguardevoli e collegata con un ampio portico retrostante (stoà), che confina con quello che doveva essere il muro di fondo dell'intero complesso. L'aspetto sconvolgente di questa scoperta è che all'interno del portico sono state trovate tracce di culti assai più antichi di quelli delle divinità finora note, sotto le sembianze di betili (idoli aniconici, a forma di sfera). L'intera struttura, insieme al portico, è stata interpretata come una domus publica, destinata ad ospitare i magistrati della nazione che si recavano al santuario.

Le ricerche attualmente in corso sono dirette dal Prof. Adriano La Regina dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte; vi partecipano studenti e laureati dell'Università di Roma-Sapienza e di diversi altri atenei italiani ed esteri (spagnoli, catalani, americani e tedeschi): le sorprese non sono finite, e-fondi permettendo- vale la pena di dedicare tempo e passione ad un luogo così splendido e ricco di storia... 

Vi consiglio di visitare il museo di Isernia per vedere la ricostruzione della stoà e gran parte dei reperti esposti al pubblico, mentre ai visitatori del sito archeologico (aperto a partire da maggio dalle 8.30 alle 19.30, chiuso il lunedì; in inverno è invece aperto dalle 10 alle 16) è possibile ammirare di persona l'imponente teatro-tempio insieme alla parte settentrionale del complesso: il tempio ionico ed il tempio A, che sono precedenti al teatro, le tabernae (botteghe) romane, che sono di età imperiale, e i piccoli ambienti medievali della zona N-E.

 Soprattutto, vi consiglio una visita da quelle parti perchè si respira un'atmosfera unica: gli abitanti del posto dicono che il teatro irradia una sorta di magia...e posso confermare che dopo esserci stata ho sempre avuto il desiderio di tornarci! 

 

Concorso Esescifi 2013: l'antologia

Il Circolo culturale Esescifi, per appassionati di science fiction, ha pubblicato un'antologia con i racconti vincitori del concorso indetto nel 2013.

Il mio racconto, dal titolo Numen inest, si è classificato decimo: lo spunto è fantascientifico, ma è soprattutto un piccolo tributo alle nostre montagne e alla bellezza del paesaggio abruzzese!

Anna Dionisio- Numen inest.doc
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Un po' di storia...

Per molto tempo, la Storia, quella che si studia a scuola, ha adottato il punto di vista dei vincitori: i Romani, che già dal II secolo a.C. dominavano gran parte del mondo allora conosciuto ed avevano assoggettato quasi tutta l’Italia.

Anche le scarne notizie tramandateci dagli autori antichi raccontano solo dell’epoca in cui Roma era già venuta a contatto con i popoli stanziati nel centro Italia. Questi autori scrivevano attorno al I secolo a.C. e nei successivi ed erano tutti romani, come Livio ad esempio, oppure “filo-romani”: greci come Dionigi di Alicarnasso, che però erano convinti della superiorità di Roma e del fatto che fosse destinata a dominare il mondo.

È stato necessario giungere all’età contemporanea perché la prospettiva cambiasse. Dall’epoca delle grandi scoperte archeologiche (Pompei ed Ercolano in Italia; Troia sull’Ellesponto…) avvenute alla fine del XVIII secolo, è nata quella che noi chiamiamo archeologia.

“Archeologia” è una parola che oggi ci evoca tante figure quasi fantascientifiche: pensiamo prima di tutto alle piramidi, subito dopo ad Indiana Jones, e –perché no?- a Voyager. Ma in realtà questa parola vuol dire, semplicemente, “studio dell’antico”, ed ha la particolarità di non utilizzare, se non in maniera complementare, le fonti scritte e documentarie (come la storia): il suo principale oggetto è lo studio della cultura materiale, mediante l’indagine sul campo, la stratigrafia e l’esame degli oggetti rinvenuti.

Si possono applicare le metodologie archeologiche a qualsiasi tipo di contesto, in qualsiasi località e per qualsiasi epoca, dalla preistoria all’età contemporanea.

Nella nostra regione, una primitiva “metodologia archeologica”, diversa ovviamente da quella attuale, è stata applicata nelle indagini da alcuni grandi personaggi della fine del 1800: i principali sono Vincenzo Zecca per la zona di Chieti, Giovanni Leopardi per quella di Penne e Loreto (erano anche dei collezionisti, le loro collezioni sono esposte rispettivamente nei musei di Chieti e Penne), e soprattutto Antonio De Nino, che svolse dal 1877 ai primi del ‘900 un’infaticabile attività di ricerca e documentazione nel territorio peligno.

Certamente le cronache che ci hanno lasciato fanno sorridere, se le guardiamo con gli occhi di oggi, ma se oggi abbiamo un’adeguata comprensione della nostra storia lo dobbiamo in gran parte a loro.

Nei primi decenni del ‘900, a parte alcuni eruditi come il corfiniese Nicola Colella, non ci sono grandi passi in avanti da segnalare… finché, nel 1934, avvenne qualcosa di totalmente imprevisto: nel territorio del comune di Capestrano (AQ) un contadino trovò una statua di dimensioni colossali! Qualcosa di mai visto prima! E anche vagamente inquietante, perché il linguaggio iconografico era differente da tutto ciò che si conosceva fino ad allora e portava un’iscrizione allora completamente indecifrabile (per saperne di più: vedere Articoli e contributi). Era il famosissimo “Guerriero di Capestrano”, che attirò improvvisamente l’attenzione di tutto il mondo sull’Abruzzo. Da allora iniziarono campagne di scavo a tappeto a Capestrano, poi interrotte con la guerra. 

Nel dopoguerra, i Soprintendenti Giovanni Annibaldi e poi Valerio Cianfarani si adoperarono per la valorizzazione e la ricerca in questi territori: in particolare, Cianfarani creò praticamente dal nulla il Museo Archeologico di Chieti, facendo tornare in Abruzzo materiali e collezioni disperse negli altri musei italiani; e si dedicò a sua volta, insieme ai suo collaboratori (tra cui un giovanissimo Adriano La Regina) alle indagini sul terreno.

Nel 1959 un’altra grandissima sorpresa: le ricerche a Sulmona, in quella che veniva chiamata “Villa di Ovidio”, rivelano invece l’esistenza di un enorme santuario dedicato al dio Ercole, che nei graffiti parietali compare con l’appellativo di Curino.

Da allora, fino a noi, le ricerche in Abruzzo hanno rivelato una realtà complessa e ricchissima: si è compreso tanto sia sulla nascita e sulle caratteristiche dei popoli abruzzesi, sia sulla distribuzione della popolazione nelle varie epoche, sulla formazione degli agglomerati urbani come sui distretti amministrativi composti di villaggi, e anche sul costume e sul linguaggio. Sono state addirittura scoperte delle città sconosciute, che le fonti storiche non nominano, e ne sono state identificate altre di cui non si conosceva l’esatta posizione.

In questo sito cercherò, per quanto possibile, di far conoscere alcuni aspetti della nostra lunga ed appassionante storia!                

           

I popoli italici

Cerchiamo di conoscere un po' meglio le popolazioni italiche, che vivevano nell'attuale Abruzzo prima che venisse conquistato dai Romani. 

Tutti gli storici antichi che ci raccontano dell'Abruzzo sono d'accordo su un punto: questa regione non era abitata da un solo popolo, ma da più popolazioni (che qualcuno chiama "tribù"). L'archeologia ha poi confermato che, almeno dal V secolo a.C., ognuna di queste tribù aveva i suoi usi e costumi, la sua lingua, i suoi particolari rituali funerari e formava, insomma, un'unità etnica distinta dalle altre.

In questa mappa (La Regina, in Coarelli-La Regina, Abruzzo Molise, Guida archeologica, 1984) vediamo i territori occupati dalle popolazioni abruzzesi in età augustea (I secolo a.C.), quando l'Abruzzo, parte della Sabina ed il Sannio erano compresi nella cosiddetta Regio IV;  Strabone (Geografia, libro V) e Livio (libri IX-X), parlano a più riprese dei popoli insediati in queste zone. Gli etnonimi (=nomi di popoli) che ci sono trasmessi, però, fanno riferimento ad un periodo relativamente tardo, che è quello in cui, a partire dalle guerre sannitiche, tali popoli erano già entrati in contatto con Roma; è solo a partire dal IV secolo a.C. che Livio (uno storico che vive tre secoli dopo) menziona le popolazioni dei Marsi, Marrucini, Vestini, Peligni, Frentani. Un periodo, cioè, caratterizzato dalla presenza di diversi nuclei tanto etnici quanto linguistici, che l’archeologia ha rivelato ben distinti per cultura materiale, elementi della lingua, modi e tempi di reazione al contatto con la potenza di Roma.

I Marsi erano la popolazione più fiera e coraggiosa in guerra (con i Sanniti dell'attuale Molise), tanto che i Romani dicevano che "non si vince una guerra contro i Marsi o senza i Marsi". Abitavano sulle sponde del lago Fucino, ora prosciugato e occupato dall'omonima piana tra Avezzano e Celano; le loro città principali erano Angitia (Luco dei Marsi) e Marruvium (San Benedetto dei Marsi).

Vicino a loro c'era il piccolo territorio degli Equicon la splendida città di Alba Fucens(Massa d'Albe); essi furono quasi completamente distrutti alla fine del IV secolo a.C., e i Romani fondarono sul loro territorio la colonia di Alba nel 303 a.C., insieme a Sora e Carsoli nei Marsi (298) proprio per controllare meglio che non si ribellassero di nuovo, e  per presidiare il nuovo tracciato della via Valeria, che avrebbe collegato Roma con l'Abruzzo.

I Peligniabitavano la valle del Sagittario, da Scanno a Cocullo e Corfinio, e poi la conca di Sulmona, fino all'altopiano delle Cinque Miglia; a nordest il loro confine erano forse le gole di Popoli. Sono il popolo che si allea più volentieri con Roma e ne assorbe più facilmente le usanze e la cultura; le loro città sono Corfinium,detta "metropoli" (=città madre), Sulmona e Superaequum (Castelvecchio Subequo).

A sud del fiume Aterno- Pescara ci sono i Marrucini, con le città di Interpromium (Torre de'Passeri) e Teate (Chieti).

A nord del fiume, e fino alla valle dell'Aterno compresa, ci sono i Vestini, popolo che ci ha restituito moltissime scoperte interessanti negli ultimi decenni: enormi e ricchissime necropoli, soprattutto. Si dividono in Cismontani (le cui città erano Aveia e Peltuinum, quest'ultima presso Prata d'Ansidonia, AQ) e Trasmontani (con Pinna, Penne). Ai Vestini Cismontani appartiene la necropoli di Capestrano, nel cui territorio è stato rinvenuto il famoso Guerriero.

Nell'attuale provincia di Teramo erano stanziati i Pretuzi, le cui città principali erano Interamnia Praetuttiorum (Teramo) e Hatria  (Atri).

A sud, nella fascia costiera della provincia di Chieti, i Frentani controllavano i porti e la navigazione da Buca (forse Ortona) a Histonium (Vasto), e all'interno avevano la città di Anxanum (Lanciano).  

Infine, c'era la piccola popolazione sannita dei Carecini, le cui principali città erano Cluviae, Trebula e Iuvanum (rispettivamente dovrebbero corrispondere a Quadri, Casoli e Montenerodomo, CH). 

La popolazione di cui invece si sostiene l’esistenza già da un periodo molto antico è quella dei Sabini, che occupavano l'Appennino interno tra gli attuali Lazio, Abruzzo e Umbria; le loro città principali erano Reate (Rieti) e Amiternum(S. Vittorino, AQ). Da essi, secondo gli storici romani, derivano tutte le altre per migrazioni successive. Ecco perché i Romani chiamavano tutti gli abruzzesi Sabelli, e i Sanniti di età storica si indicavano nelle iscrizioni su monete come Safinim : entrambi questi ceppi etnici hanno una comune origine dai Sabini. 

Il nomeSafino-, che secondo le regole linguistiche dell'Italia medioadriatica corrisponde a Sabino-, esisteva sicuramente dal V secolo a.C. Ne abbiamo la prova perchè a quel periodo risalgono tre iscrizioni su stele, trovate a Penna Sant'Andrea (TE), che parlano di "popolo Safino" e di "capi dei Safini". Ma di questo parleremo nei prossimi articoli.

Donne, maghe e guaritrici: femminile e sacro nell'Abruzzo antico

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Nel variegato pantheon dei popoli italici in via di romanizzazione, e in particolare delle popolazioni sabelliche e sannitiche (quelle, per intenderci, stanziate nel territorio degli attuali Abruzzo e Molise), spicca la presenza di alcune divinità femminili che sembrano rappresentare diverse sfaccettature di un’unica Dea Madre. In molte località, tali dee sono oggetto di un vero e proprio culto istituzionalizzato, sovente praticato da collegi sacerdotali declinati tutti al femminile.

Le fonti storiche ed epigrafiche trasmettono, in relazione ad un periodo che coincide grosso modo con l’età ellenistica (IV-I secolo a.C.), alcuni nomi con una certa frequenza: Mefitis e Vesuna per il Sannio; Anxa/Angitia per la Marsica; e soprattutto Ceres (in sannita Kerri-) e Venus (in sannita e sabellico Herentas), attestata un po’ovunque in Italia peninsulare.

A partire dal III secolo a.C., Cerere viene assimilata con l’ellenica Demeter, e perciò venerata spesso in coppia con la figlia Kore/ Persefone.

 

Probabilmente il culto cererio in Italia ha le sue radici proprio nella venerazione tributata alla Ceres Hennensis, di cui parlano diffusamente le fonti di età romana: Cicerone, nelle orazioni contro Verre, si dilunga nell’osservare come tutta la città di Enna “sembrava un unico luogo di culto consacrato a Cerere  (Verr., 111, 8): tale religiosità, dai forti connotati inferi e demetriaci, si diffuse a partire dalla Sicilia verso la penisola italiana. Anche a Roma la devozione alle due dee, madre e figlia, era molto sentita: al punto che, nonostante esistesse in città un grande tempio ad esse dedicato, per le situazioni di emergenza si inviavano delegazioni a chiedere grazia ad Enna, come testimonia sempre Cicerone.

Qual era il vero volto di queste dee? L’archeologa Adele Campanelli ha già notato più volte la connessione tra tali figure e l’elemento ctonio, insieme agricolo e sotterraneo. Si tratta di immagini in sostanza ambigue, come è ambigua la madre Terra di cui incarnano le caratteristiche: grembo fertile da cui nasce la vita, ma nello stesso tempo luogo della sepoltura e della dissoluzione. Aspetti tra loro connessi, e ben esemplificati nel mito di Proserpina, figlia di Demetra, rapita dal dio degli inferi Ade proprio nei pressi di Enna: secondo il racconto mitico, a Proserpina, giunta negli Inferi, fu offerto un melograno, frutto emblematico, simbolo di fertilità. La vita si rinnova nel dualismo delle stagioni, nel doppio volto di Bona dea, divinità benigna e protettrice, e Magna Mater, sinistra e minacciosa. Lo stesso dualismo che ritroviamo in Angitia, divinità venerata a Luco dei Marsi (AQ), signora dei serpenti di cui era in grado di neutralizzare il morso, e che una tradizione trasmessa da Servio considera sorella di Circe e Medea: una possibile eco del mito sopravvive, forse, nel comune di Cocullo (AQ), sito ai margini della valle peligna lungo una direttrice che vide fino al XIX secolo un’intensa mobilità di persone dirette verso la Marsica e il Fucino; a Cocullo, all’inizio del mese di maggio, si tiene ancora ogni anno la “processione” della statua di San Domenico ricoperta da serpenti vivi, affinché il santo scongiuri il pericolo di avvelenamento. La sovrapposizione è abbastanza evidente.     

Non a caso Angitia è anche dea della divinazione e della negromanzia, e le sue adepte erano chiaroveggenti e in grado di evocare gli spiriti dei morti affinché svelassero il futuro.   

 

In Abruzzo abbiamo prova dell’esistenza, in età antica, di una complessa religiosità che prende le mosse da tali figure divine, incarnazione del femminile, della natura e del potere generativo, e che sembra essere praticata esclusivamente da donne. Iscrizioni e rilievi, soprattutto a carattere sacro o funerario, ci trasmettono informazioni preziose: a Rapino (CH) una tavoletta in bronzo oggi dispersa, con iscrizione in latino arcaico, sembra riguardare una legge sacra, in cui alcuni studiosi hanno ravvisato un indizio della pratica della prostituzione nel santuario di una divinità femminile (dell’istituto della cosiddetta “ierodulia”, o prostituzione sacra, sembra esserci una testimonianza tarda del greco Atenodoro, riportata da Porfirio), datata attorno al III secolo a.C.

Ad Agnone (IS), nel II secolo a.C., viene stilata un’altra legge sacra, la cosiddetta “Tavola di Agnone”, che prescrive i riti da compiere in onore di un gran numero di divinità, molte delle quali sono Kerriai, divinità di stampo cererio legate agli elementi naturali; è possibile comprendere che i riti venivano svolti all’interno di uno spazio sacro recintato.

Ma è dal territorio peligno che proviene un’eccezionale quantità di attestazioni, materiali ed epigrafiche, riguardanti non solo le dee ma anche le sacerdotesse dedite al loro culto. Il santuario di Sant’Ippolito a Corfinio (AQ) ha come divinità principale Ercole, ma vi sono stati rinvenuti statuette e teste femminili in terracotta, oggetti legati al mondo femminile (come gli unguentari) deposti in qualità di ex voto, e vere e proprie statue di culto, di cui una, mutila e con corona turrita, potrebbe rappresentare l’avvenuto sincretismo della Cerere italica con Cibele, la dea sotterranea proveniente dalla Frigia, cui era dedicato un culto misterico. Inoltre, il rinvenimento di un frutto di terracotta, sicuramente da identificare con una mela cotogna (Cydonia oblonga), mette in relazione il santuario di Corfinio con luoghi in cui sono stati rinvenuti frutti analoghi, in Etruria (Spina, Gravisca, Tarquinia) e nel mondo grecizzato (il tempio della Malophoros di Selinunte): nella totalità dei casi la cotogna è connessa al culto delle divinità femminili infere.

 

Le sacerdotesse preposte al culto delle dee sembrano non discostarsi dalle caratteristiche che le fonti trasmettono per i collegi femminili del mondo romanizzato o in via di romanizzazione. Diverse iscrizioni funerarie in lingua peligna, rinvenute a Corfinio, Sulmona e dintorni, recano la sintetica dicitura “anaceta cerria”,  che la maggior parte degli studiosi oggi concorda nel tradurre come “sacerdos Cereris”: formula tra l’altro attestata anche in iscrizioni successive in latino, nella stessa zona, in cui a volte il sacerdozio di Cerere si accompagna a quello dedicato a Venere. Solo in alcuni casi è riportato il nome delle sacerdotesse sepolte: una Saluta Scaifia, una Tettia, una Vibea Metia, esponenti delle più importanti famiglie dei grandi centri urbani. Un rilievo tombale di età romana recita: Helvia Pothine, sacerdos Cereris, con l’eloquente immagine della proprietaria in atto di sacrificare una scrofa (secondo il poeta sulmonese Ovidio, la dea “godeva del sangue” delle scrofe gravide). 

Un’eccezione a questa generale sobrietà delle testimonianze sembra offerta da un plinto (lapide bassa e quadrangolare) funerario proveniente dalla più estesa delle necropoli di Corfinio, quella che circonda la via che porta a Pratola Peligna, rinvenuto a fine ‘800 da Antonio De Nino, il pioniere delle ricerche in zona. Esso si data alla metà del I secolo a.C. e reca un carme funerario assai esteso, solo in parte comprensibile, in lingua peligna. La proprietaria della tomba, tale Prima Petiedia, sacerdotessa di Cerere e di Herentas- Venere, viene detta, secondo l’interpretazione di Emilio Peruzzi, “ritualmente vedova”: anche le fonti di età romana, del resto, ci testimoniano che le sacerdotesse di Cerere non potevano avere nessun contatto con uomini nel periodo del loro servizio sacro, e pertanto dovevano divorziare temporaneamente dai mariti. Nel periodo del servizio pertanto la donna torna ad essere Vibidia, il nome della famiglia paterna. Il suo alto rango sociale si accompagna ad un ruolo cardine all’interno del collegio di appartenenza: oltre ad essere sacaracirix, termine generico traducibile come “sacerdotessa”, è anche pristafalacirix, probabilmente “capo delle sacerdotesse”. L’iscrizione è dunque prova dell’esistenza di una gerarchia interna ben definita e di prescrizioni rituali minuziose.

La menzione nell’iscrizione di Perseponas, Persefone, rafforza l’idea che la coppia della dea con Demetra sia venerata a Corfinio, probabilmente con una ritualità di stampo misterico; anche a Cansano (AQ), località nei pressi di Sulmona, in cui è stato individuato un complesso sacro dedicato a più divinità, sono state rinvenute attestazioni di questo culto, tra cui un symplegma (gruppo) fittile raffigurante l’abbraccio tra le due dee.

Tale aspetto, cui probabilmente si collegano influenze dell’orfismo dionisiaco proveniente dal Vicino Oriente, necessita ancora di studi approfonditi. In questo senso si potrebbe interpretare la formularità dell’iscrizione di Prima Petiedia, che ha punti di contatto con quella delle cosiddette “lamine orfiche” della Magna Grecia e di un esemplare rinvenuto a Roma; e un votivo a forma di lira miniaturistica rinvenuto nel santuario di Sant’Ippolito.