Attestazioni epigrafiche di età orientalizzante e arcaica dalla Sabina

Fiaschetta da Poggio Sommavilla (RI)
Fiaschetta da Poggio Sommavilla (RI)

Le primissime iscrizioni rinvenute nel territorio dell'Italia centrale appenninica risalgono al VII secolo a.C. Sono in numero molto esiguo e concentrate soprattutto nelle aree interne della Sabina: due provengono da Magliano Sabina e una da Poggio Sommavilla (entrambe le località sono site nel reatino); vi sono inoltre, come vedremo, sporadiche attestazioni dello stesso alfabeto e della stessa lingua in territorio etrusco, a Chiusi (SI) e al Ferrone di Tolfa (RM), mentre un biconico sporadico con iscrizione in sabino, probabilmente prodotto da fabbrica di Otricoli, è conservato in Svezia (Uppsala, vicino Stoccolma). L’alfabeto ha caratteristiche diverse tanto dal latino, quanto dall’etrusco e dagli alfabeti utilizzati successivamente in territorio falisco ed abruzzese, nonostante il cosiddetto “paleosabellico” o “sudpiceno” mostri notevolissime affinità con il sabino, per la comune derivazione dall’alfabeto euboico e per la presenza di segni di origine etrusca (La Regina 2010).  

L’iscrizione di Poggio Sommavilla è apposta su una fiaschetta-gingillo rinvenuta nel 1895 e subito ritenuta dispersa (se ne conoscevano solo la relazione di scavo e apografi: NotSc1896, p. 484). Sul finire degli anni ’70 è stata riscoperta tra i materiali del Museum of  Fine Arts di Boston.

Le cronache di scavo affermano che nella necropoli di Poggio Sommavilla si rinvennero poche attestazioni del periodo più antico, soprattutto vasi protocorinzi in gran parte adespoti, insieme a questa fiaschetta, e una quantità consistente di contesti ellenistici, rappresentati da tombe ipogeiche plurime. 

 

Presenta tre gruppi di lettere, dislocate in diverse parti del vaso: la più lunga corre sul collo, con la coda che si sovrappone alle prime lettere secondo un andamento spiraliforme (ed un punto che ha verosimilmente la funzione di indicare l’inizio); le altre due si trovano sul ventre, separate tra di loro, e sono composte da un minor numero di lettere.

La traduzione è stata –ed è ancora- oggetto di controversie. A. Marinetti (REI 1984) si limita prudentemente per molte parole a fornire la sfera semantica (“Faletoni (dat.) definixit (po-hehike perf.) eufs (sogg.) skerfs (ogg.) dederunt (he-dusef)”); la forma verbale al perfetto contiene la radice he-hik, comune ad altre iscrizioni falische (fifik-), erniche (vhek-), latine arcaiche (vhevhaked della fibula di Praeneste) e sabine (face del cratere del Ferrone); il gruppo delle iscrizioni con l’uso della radice fak- per il verbo fare, esaminato da A. L. Prosdocimi e dalla stessa Marinetti, è stato messo in contrapposizione con quelle adriatiche, per cui la radice utilizzata per “fare” è ops-, ups- (opsùt da Capestrano).     

Poco più recentemente H. Rix (REI 1996) ha fornito una diversa lettura, corredata da un’interpretazione insolita. Il significato viene collegato al carattere di oggetto-gingillo del vasetto: si tratterebbe di un “botta e risposta” scherzoso apposto come firma dell’artista (“Falendo, per chi è lo scritto?” “Lo scritto?” “E’ per colui che l’ha ordinato/voluto”). Rix include inoltre, nel catalogo del 2002, questa attestazione tra i testi “paleoumbri” e dunque non usa il termine “sabino”. 

Questa lettura trova sostegno in alcuni fattori: prima di tutto la presenza di diverse iscrizioni, dislocate su tutta la superficie del vaso, e dunque in posizione insolita, che si presta ad un gioco di parole; ma anche il confronto con iscrizioni apposte su oggettini consimili, provenienti da tutta la penisola e risalenti all’incirca allo stesso periodo e recanti scherzi, motteggi e false minacce: la capostipite di questo filone, almeno in Italia, potrebbe essere la famosa “coppa di Nestore”, rinvenuta a Pithekoussai e risalente alla fine dell’VIII secolo a.C., che reca tre esametri in alfabeto e lingua greci: Nèstoros men eimì d’eupoton poterìon / hos d’an tòde pièsi poteri’autìka kènon / himeros hairesei kallistephanou t’Aphrodites  “Io sono la coppa di Nestore, da cui si beve bene: colui che berrà da questa coppa, lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona”.    

 

La prima iscrizione da Magliano è graffita su frammenti di ventre di un vaso di forma chiusa. Il ritrovamento è avvenuto negli anni ’70, nel territorio del comune di Magliano Sabina (RI), in località Colle del Giglio.

Sino alla data del ritrovamento di questi frustuli, l’iscrizione di Poggio Sommavilla era considerata isolata, geograficamente e linguisticamente. Questa nuova iscrizione ha ampliato le prospettive in favore di una considerazione globale della realtà linguistica della regione. 

I frammenti presentano iscrizioni graffite a fianco di figure dipinte (per questo si è pensato ad una sorta di didascalia delle immagini); la grafia ha una certa somiglianza con quella della fiaschetta di Poggio Sommavilla: l’andamento è destrorso, non segue una linea retta ma corre liberamente sul vaso rispettando solo le figure; l’alfabeto è simile a quello etrusco.

L’alfabeto sembra avere contatti con quello etrusco meridionale (Caere, Veio, Tarquinia), in particolare per l’uso del samekh; c’è anche un segno a rettangolo, come quello dell’iscrizione di Poggio Sommavilla; si è pensato anche ad una sua ascendenza capenate (Colonna), proprio a causa dei rapporti di affinità molto forti tra Capena e la Sabina propria.  

L’unico nucleo di evidenza linguistica è rappresentato dalla parola rufrah, che richiama il rufra della stele di Crecchio e ha origine dalla stessa radice *rubh da cui deriva il latino ruber, “rosso”: la trasformazione della spirante bilabiale *bh in labiale sonora nel versante tirrenico e in fricativa nell’Adriatico conferma anche quella analoga che si verifica nella parola sabino / safino.

 

La seconda iscrizione da Magliano si trova graffita su di un calice, proveniente da una tomba a fossa dalla necropoli di Colle del Giglio. Il calice è basso, su piede ad anello, in impasto buccheroide. Sulla parete al di sopra della carena vi sono due iscrizioni destrorse, graffite dalla stessa mano dopo la cottura. Il calice è stato tenuto rovesciato per incidere la prima parola e diritto per la seconda. Viene datato, grazie al contesto archeologico di rinvenimento, alla fine del VII o all’inizio del VI sec. a.C.; la tipologia di sepoltura qualifica il proprietario della tomba come un aristocratico, e la presenza nell’iscrizione di due sole parole, individuabili come nomi propri in caso nominativo, collega tale oggetto all’uso del simposio e all’invito a bere da parte del proprietario della coppa, Iatinoz, il cui nome si legge al rovescio, all’ospite Qunoz, con il nome al diritto (Santoro 2008). 

Altre tre iscrizioni provengono da territori diversi, ma per questioni alfabetiche e linguistiche sono riconducibili alla lingua sabina e all’orizzonte cronologico orientalizzante-arcaico. Essi sono un cratere proveniente dalla necropoli del Ferrone di Tolfa (Colonna 1985; Benelli 2008), con iscrizione traducibile come “Septimius me fecit”; una fiasca del pellegrino dalla necropoli di Poggio Gaiella di Chiusi (Maggiani 1999; Rocca 2005) e un biconico conservato a Uppsala (Svezia), probabilmente prodotto in una fabbrica di Otricoli (TR) tra la metà e il terzo venticinquennio del VII secolo a.C. (Colonna 1999, p. 24; l’autore ha interpretato la dedica come non sabina ma umbra, “A Liber”).

La somiglianza della lingua di tali iscrizioni con il cosiddetto sudpiceno o paleosabellico, il ceppo principale attestato in età arcaica nel versante adriatico, è evidente, come vedremo; tale accostamento è giustificato se dal letto del Farfa, poco più a sud, proviene un documento di importanza capitale, il cippo di Cures (RI), posteriore di circa un secolo e mezzo, in alfabeto e lingua sudpiceni, “anello di congiunzione” tra Tevere ed Adriatico, che permette di considerare le attestazioni sabine e quelle abruzzesi come aspetti di un fenomeno unitario (Morandi 1985; Marinetti 1985; Benelli 2008).  

 

In questo momento non solo l’assimilazione dell’alfabeto appare già compiuta, ma è stato assorbito anche l’apparato ideologico che era ad esso collegato nel mondo etrusco e laziale.

I gruppi aristocratici sabellici intrattenevano infatti scambi vivaci di beni di prestigio e di persone con gli altri popoli (Papi 2006), in un rapporto di sostanziale parità con le altre aristocrazie, in primis con quella etrusca.

Appare chiaro che i fruitori del mezzo scrittorio, in questa quota cronologica, sono esclusivamente –almeno dalle testimonianze pervenuteci- esponenti del ceto aristocratico; la scrittura è essa stessa un’indicazione di prestigio e di status (vd. Sassatelli in Principi etruschi), poiché rappresenta una competenza non legata strettamente ad un uso funzionale, e perché per acquisirla l’aristocratico ha dovuto necessariamente intrattenere relazioni con individui e gentes di pari rango, in patria o all’esterno (un’eco di ciò è forse nei racconti della paideia a Gabii di Romolo e Remo: vd. Plutarco, Vita di Romolo, VI, 2).

Tale capacità viene utilizzata prevalentemente su oggetti, per indicarne il possesso o la dedica (il dono è un rituale di scambio caratteristico del ceto aristocratico ed è sottoposto a precise regole), rimarcando nello stesso tempo l’appartenenza dell’individuo nominato ad una gens emergente. Secondo la mentalità arcaica, infatti, la realtà dell’individuo non comprende solo la persona fisica ma anche i suoi beni (G. Colonna, Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso dell’Italia preromana, in Epigraphica 1983). La scrittura è dunque, in questa prima fase, “un’ideologia e non una necessità” (G. Sassatelli, Il principe e la pratica della scrittura, in Principi etruschi, 2001).